I promotori del referendum sull’autonomia cantano vittoria per avere superato la soglia delle 600.000 firme grazie allo sdoganamento delle sottoscrizioni digitali autorizzato dal ministero dell’Interno, oltre dal fatto che cinque regioni hanno approvato in precedenza la richiesta di referendum sulla stessa materia, cosa che di per sé rende un sovrappiù la raccolta delle firme degli elettori e pregustano una facile vittoria contro la legge Calderoli che è stata definita come “legge cornice” per attuazione dell’articolo 116 della Costituzione, così come riformato dalla maggioranza di sinistra nel 2001. Ma prima di cantare vittoria, sarebbe meglio riflettere a mente fredda, perché i promotori più a fare un torto ai fautori della maggiore autonomia «che spaccherebbe il Paese» rischiano di fare proprio l’opposto che si propongono.
La legge Calderoli è stata voluta come una sorta di freno e di regolamentazione del processo autonomistico, sia dalle forze politiche pro autonomia – che in cuor loro ne avrebbero fatto volentieri a meno – che da quelle centraliste, che hanno sempre visto male il processo autonomistico nato dopo l’abbandono del progetto federalista interpretato dalla Lega Nord bossiana.
Il fatto che la legge Calderoli sia inutile per l’attuazione del processo autonomistico ai sensi dell’art. 116, 3° comma della Costituzione riformata nel 2001, lo conferma il fatto che le intese sottoscritte dal governo Gentiloni con le regioni Lombardia e Veneto, con l’accodamento dell’Emilia Romagna per coprire il fronte sinistro dell’allora maggioranza di governo, erano perfettamente valide, salvo arenarsi per la crisi di governo.
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Ora, con la legge Calderoli, tutto il processo autonomistico è sottoposto alle forche caudine dei Lep, i livelli essenziali di prestazione, Lep che, in almeno 18 delle 27 materie devolvibili dallo Stato alle Regioni secondo la Costituzione, sono praticamente impossibili da attuare per via degli enormi costi connessi. Di fatto, con la legge Calderoli, una sorta di cintura di castità politica ai fervori autonomistici delle regioni, possono essere attribuite alle regioni che lo chiedano solo quelle 9 materie non soggette ai Lep. E questo costituisce uno scenario visto con favore ai tanti centralisti che permeano maggioranza e opposizione.
Se la richiesta di referendum sull’autonomia avrà successo – e di fatto lo ha già avuto stando alle richieste delle 5 regioni e delle 600.000 firme raccolte – il primo ostacolo da superare è il giudizio di ammissibilità da parte della Corte costituzionale. Qui il “problemino” è costituto dalla definizione giuridica della legge Calderoli, qualificata come “legge cornice” pure dalla stessa richiesta referendaria che fa riferimento ad una precisa disposizione costituzionale, il 116, 3° comma. Di fatto, sia il legislatore che i referendari l’hanno riconosciuta come “legge cornice” che fa riferimento alla stessa Costituzione, il che fa discendere una conseguenza, come ha sottolineato anche l’insigne costituzionalista Mario Bertolissi, già componente della delegazione trattante Veneta e del Comitato dei saggi di Cassese per la definizione dei Lep, ovvero che «è una legge a contenuto costituzionalmente obbligatorio e come tale non assoggettabile a referendum abrogativo».
Stando così le cose, alla Corte costituzionale non rimarrebbe che rimandare al mittente le cinque richieste inoltrate dalle regioni e dalle 600.000 firme raccolte, evidenziando ancora una volta l’impreparazione e la superficialità di una classe politica incapace di formulare un quesito referendario inappuntabile e su una materia effettivamente ammissibile.
Nello scenario in cui la Corte costituzionale facesse uno strappo e approvasse il referendum sull’autonomia e pure gli elettori lo approvassero, l’abrogazione della legge Calderoli sarebbe festeggiata da tutti i più autentici autonomisti, con buona pace di coloro che invece vorrebbero festeggiare per la mancata spaccatura del Paese.
L’abrogazione della legge Calderoli fa rivivere pienamente il dettato costituzionale che è auto applicativo e, come tale, già utilizzato da un governo della Repubblica – quello Gentiloni – a maggioranza centrosinistra, con in più la differenza che non esisterebbe nemmeno più la cintura di castità politica dei Lep, per cui ciascuna regione che volesse la maggiore autonomia non farebbe altro che attivare la procedura definita dalla Costituzione e iniziare la trattativa diretta tra Regione e Stato per la devoluzione di tutte o parte delle 27 materie delegabili fissate nella Costituzione.
Di fatto, i veri autonomisti non possono che tifare per la riuscita del referendum per uscire da una pastoia procedurale che, altrimenti, alla vera autonomia non poterà mai. Si aprirebbe un’autentica prateria autonomista per tutti quegli amministratori che si sentono in grado di imprimere un cambio di marcia ai territori che rappresentano, che accettano la sfida della maggiore responsabilità e autodeterminazione.
Sarebbe la vera rivoluzione agevolata proprio da coloro che con il referendum sull’autonomia vorrebbero stopparla, millantando un rischio di spaccatura del Paese che non esiste in quanto la nazione è già ampiamente frammentata proprio dall’incapacità della politica di amministrare le realtà locali, complice l’inadeguatezza di molti vertici di partito, locali e nazionali, che alla selezione e crescita di una classe politica strutturata e preparata hanno sempre preferito una schiatta di servitori attenti più agli interessi personali che a quelli della loro comunità.
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