La legge di bilancio 2025 ha iniziato il suo cammino parlamentare con le audizioni nelle commissioni bilancio, dove i vari rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni economiche rappresentano luci ed ombre.
Le certezze sono che sale di 2,4 milioni la platea dei beneficiari del taglio del cuneo fiscale, e che si farà sentire anche l’accorpamento delle aliquote Irpef, con un reddito disponibile per le famiglie che, in media, salirebbe dell’1,5% secondo la Banca d’Italia. Ma i dubbi sono tanti: a partire dalle stime di crescita, che se troppo ottimistiche minaccerebbero il risanamento dei conti. Fino alla sanità dove la spesa per medici e ospedali torna ai livelli pre-pandemia, tanto che l’Ufficio parlamentare di bilancio evoca il rischio di deficit per le regioni e, se rimane in piedi il sistema del “payback sanitario”, problemi a non finire anche sul fronte delle aziende fornitrici chiamate a posteriori a contribuire per coprire i buchi di bilancio della sanità regionale.
Il passaggio al microscopio della legge di bilancio 2025 – con una gragnuola di audizioni nelle commissioni parlamentari – è una vera e propria graticola per la manovra che bilancia le promesse fatte con i vincoli stringenti del nuovo Patto di stabilità Ue. E rivela diverse potenziali criticità, legate alla scelta di intervenire un po’ dappertutto.
Alla base c’è la crescita: da una stima iniziale del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, di circa l’1%, si è arrivati – dopo la doccia fredda di una crescita zero nel terzo trimestre – a una crescita acquisita 2024 a 0,4%, che si trascinerà sul 2025 e che mette in difficoltà la chiusura del bilancio per via del calo del gettito fiscale atteso.
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«L’attività economica faticherebbe a recuperare slancio nello scorcio di quest’anno – spiega il vice capo del dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia, Andrea Brandolini -. In assenza di una significativa accelerazione la crescita prefigurata nel Piano strutturale di bilancio per il biennio 2024-25 appare più difficile da conseguire». Parole che, lette assieme ai rischi geopolitici e commerciali, fanno presagire una lente ben puntata sulla traiettoria del debito che già negli obiettivi del Piano scenderebbe in rapporto al Pil solo dal 2027.
Il presidente del Cnel, Renato Brunetta, evoca un “effetto burrone” all’esaurirsi degli effetti del Pnrr – unico pilastro degli investimenti pubblici, già di suo in forte difficoltà e alla terza revisione – dopo il 2026. Il presidente dell’Inps, Gabriele Fava, dà conto dei «risvolti anche favorevoli sulla tenuta del sistema previdenziale» grazie all’intervento sulle pensioni.
L’Istat solleva il problema sanità, in un Paese dove nel 2023 gli italiani che avevano rinunciato a curarsi per motivi economici, scomodità o liste d’attesa troppo lunghe, erano ben il 7,6% contro il 6,3% del 2019. Se continua a salire il conto per le famiglie, nel 2023 la spesa sanitaria cala dello 0,4%, a 130,2 miliardi, per assestarsi sui livelli pre-pandemia. Insufficiente, secondo l’Upb, quanto stanziato nella legge di bilancio 2025 per stare al passo col fabbisogno delle Regioni. I numeri snocciolati dall’Istat su medici e infermieri tracciano uno scenario che è il contrario rispetto alle necessità: secondo Bankitalia nei prossimi 10 anni serviranno il 30% di camici bianchi in più.
La lista dei dubbi sollevati nelle audizioni tocca anche le misure per la natalità, dove Brandolini spiega che più che i trasferimenti alle famiglie con figli, meno efficaci, occorrerebbero più asili nido e congedi parentali. E molte delle voci da cui il governo si aspetta di fare cassa: a partire dall’equità dell’intervento sulle detrazioni fino ai tagli lineari ai ministeri, dove Bankitalia invoca invece una revisione della spesa selettiva anti-sprechi decisamente più incisiva rispetto a quella prospettata.
Arrivando fino al “contributo spintaneo” chiesto dalla legge di bilancio 2025 alle banche e assicurazioni, la Corte dei Conti si aspetta incassi nel prossimo biennio forse anche più consistenti del previsto. Ma essendo una partita di giro, arriverebbe inesorabilmente una «perdita di gettito ancora più pronunciata a partire dal 2027». Ma per quella data, potrebbe esserci una maggioranza diversa a reggere le sorti del Paese.
Infine, l’Ufficio parlamentare di bilancio si sofferma sulla riforma fiscale. Il nuovo assetto dell’Irpef che scaturisce dalla manovra è caratterizzato «da un significativo orientamento redistributivo, con particolare attenzione al sostegno dei redditi da lavoro dipendente medio-bassi. Al tempo stesso, emerge un sistema articolato nella sua struttura, che potrebbe richiedere ulteriori interventi di razionalizzazione nel futuro per ottimizzarne il funzionamento complessivo», ha spiegato la presidente dell’Upb, Lilia Cavallari. Nel complesso, l’analisi degli effetti distributivi mostra una concentrazione dei benefici sul lavoro dipendente, con impatti differenziati per categoria professionale. Gli operai ricevono un beneficio medio di 692 euro, pari al 4,1% del reddito, mentre per gli impiegati il vantaggio si attesta a 766 euro, corrispondente al 2,4% del reddito. I dirigenti, i pensionati e i lavoratori autonomi registrano benefici più contenuti, rispettivamente di 280, 118 e 165 euro. Un po’ poco per quella classe media in via di estinzione cui si deve gran parte del successo elettorale dell’attuale coalizione del governo Meloni.
Le speranze di un calo delle tasse per la classe media sono riposte nel gettito del concordato preventivo biennale che, secondo le prime anticipazioni, pare abbia assicurato un gettito di 1,3 miliardi da parte di circa mezzo milione di aderenti, soldi che dovrebbero andare a ridurre la pressione fiscale sul secondo scaglione fiscale del 35%, limato forse al 34 o al 33%, con la possibile estensione da 50.000 a 60.000 euro.
A concordato chiuso, già si spinge per una sua riapertura, per incamerare più gettito, cosa che suscita qualche critica da parte del presidente dell’Associazione Le Partite Iva, Angelo Distefano, secondo cui «come sempre, in questo Paese, non c’è una scadenza fiscale che venga rispettata! E già ora dallo stesso governo si parla di un decreto per riaprire i termini di adesione come avevano chiesto a gran voce associazioni e professionisti, per avere il tempo per spiegare e valutare con attenzione il beneficio o meno della proposta concordataria, ma piuttosto perché il Governo si è reso conto che i numeri delle adesioni sono insufficienti per coprire la manovra di bilancio. Se solo il ministro avesse ascoltato la voce del popolo anziché “tuonare a gran voce” che nessuna proroga sarebbe stata concessa, oggi, sicuramente, ci farebbe sentire meno abitanti del Paese dei balocchi e più cittadini di un Paese serio, efficiente e meno ingordo».
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