La cessione della rete Tim e l’affarone del fondo d’investimento Kkr

L’ex monopolista incassa 18,8 miliardi comprensivo anche del debito, ma s’impegna a riaffittare la rete per 2 miliardi di euro all’anno fino al 2039. E altri 2 mld annui arrivano dagli altri operatori.

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cessione della rete tim

Il 1° luglio scorso si è celebrato l’affare che tutti vorrebbero fare, liquidità permettendo: la cessione della rete Tim, l’ex monopolista telefonico italiano, al fondo americano Kkr la propria rete fissa per la modica cifra di 18,8 miliardi di euro tra incasso liquido e accollo della quota di debito, e la nuova società proprietaria della rete, “Netcovedrà l’ingresso diretto dello Stato italiano per il tramite del ministero del Tesoro con il 20% del capitale con un investimento di 2 miliardi, cui s’aggiungono il fondo infrastrutturale italiano F2i con il 10% del capitale, mentre il fondo sovrano di Abu Dhabi Adia e il Canada Pension Plan avranno quote rispettivamente del 20% e del 17,5%.

Di fatto, con la cessione della rete Tim si trasforma in un grande fornitore di servizi di connessione abbattendo il proprio debito di oltre 20 miliardi che zavorra il gruppo fin da quando il gruppo dei “capitani coraggiosi” capitanati da Roberto Colaninno e Chicco Gnutti e acquistarono dallo Stato quella che una volta si chiamava Telecom Italia. Peccato solo che i “capitani coraggiosi” da una delle tante privatizzazioni fallite del governo Prodi con il senno del poi si siano ben guardati dall’immettere denaro fresco, visto che scaricarono i costi di acquisto direttamente su Telecom Italia mediante un complicato sistema di scatole cinesi sfruttando l’allora ingente liquidità generata dal gestore dei servizi telefonici. Una strategia che di fatto ha sì privatizzato l’azienda ma l’ha pure drenata fortissimamente della generazione di utili necessari per finanziare gli aggiornamenti tecnologici per rimanere competitivi sul mercato.

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I risultati di un simile modo di agire più da pirati della finanza che dacapitani coraggiosi” così come li ebbe a battezzare nel 1999 un allora Mario Draghi come direttore generale del Tesoro, si sono riverberati nel tempo azzoppando definitivamente una società che non aveva debiti e che venne gravata da un debito da 50 miliardi di euro. E dopo la stagione di Colaninno e Gnutti poi toccò anche a Marco Tronchetti Provera metterci del suo facendo incrementare ulteriormente i debiti.

Oggi per tentare un rilancio, Tim ha dovuto vendere il proprio gioiello garantendo agli azionisti di Kkr e soci quello che potrebbe essere l’affare del secolo a rischio zero perché Tim ha stipulato con “Netco” un contratto di affitto della rete di 15 anni con cui pagherà ogni anno 2 miliardi di euro per l’affitto della rete, per poi salire progressivamente fino a 2,7 miliardi all’anno nel 2039. Agli incassi da Tim si aggiungono poi quelli derivanti dagli altri operatori telefonici, per altri 2 miliardi all’anno circa. Di fatto, l’operazione di cessione della rete Tim genera entrate per circa 4 miliardi di euro all’anno, tale che in soli 5 anni l’investimento di Kkr & soci sarà completamente recuperato, assicurando poi altri 10 anni di lauti guadagni certi, con un margine che varia dal 46% del 2024 fino al 61% del 2039. Ricavi che potrebbero anche aumentare se l’operazione di ristrutturazione della struttura rilevata da Tim che comprende anche 20.000 addetti verrà pesantemente razionalizzata.

Ancora una volta gli affaroni lo fanno i soliti noti ben inseriti nei gangli di potere che contano, spesso protagonisti di quelle porte girevoli tra potere politico e potere economico senza soluzione di continuità, potendo contare su conoscenze dirette anche riservate e di contatti privilegiati.

La situazione di Tim è esemplare di come lo Stato italiano non abbia saputo individuare le priorità della spesa pubblica: invece di buttare 200 miliardi di euro per ristrutturare spesso le ville, castelli, case vacanze con il Superbonus 110% o i 34 miliardi del reddito di cittadinanza, si sarebbe potuto acquisire direttamente la proprietà dell’infrastruttura fondamentale per lo Stato, anche in termini di sicurezza nazionale, ma non lo si è fatto. E questo è un grave errore che peserà anche negli anni a venire, perché poteva essere rapidamente spesato con gli incassi dalla vendita dei diritti di traffico agli operatori, per di più a rischio zero.

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