Finanziaria 2025 ancora alla cerca di 10 miliardi e di ipotetici extraprofitti

Ma manca una seria azione di riduzione della spesa e degli sprechi. Secondo Unimpresa, il debito pubblico italiano nel 2024 è cresciuto di 15,4 mld al mese, +50% rispetto al 2023.

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Alla vigilia della presentazione a Bruxelles dei contenuti della Finanziaria 2025 e del piano strutturale di bilancio, al ministro delle Finanze Giancarlo Giorgetti mancano ancora 10 dei 25 miliardi di cui si compone la manovra, visto che gli appelli ai vari ministri di ridurrespontaneamente” la propria spesa è finita come si poteva immaginare in un nulla di fatto.

Si vedrà se nelle prossime ore Giorgetti, di fronte al muro di gomma dei suoi colleghi ministri, farà ricorso ai cosiddetti tagli lineari per tutti i ministeri, forse con l’eccezione della sanità, ma dalla politica si ciancia di provvedimenti che hanno già ampiamente dimostrato di non funzionare, anzi, di funzionare all’incontrario finendo con lo scavare buchi nel bilancio dello Stato invece che rimpinguarlo, come alcune forze politiche propongono con la tassazione degli extraprofitti di banche, assicurazioni e società finanziarie.

Più che tassare extraprofitti che non sono affatto illeciti, ma pienamente legali, tassati regolarmente al 26% a seguito delle decisioni prese dalla Banca centrale europea, nella Finanziaria 2025 sarebbe meglio coinvolgere le realtà bancarie, assicurative e finanziarie nella valorizzazione di tutto quell’ingente patrimonio pubblico, statale e degli enti locali (con quest’ultimi che hanno incassato il patrimonio statale devoluto qualche lustro fa dal ministro Tremonti sull’onda della moda devoluzionista) utilizzato poco o per nulla, tant’è che pure una realtà come Banca Intesa si era detta disponibile ad attivare strumenti idonei alla bisogna che avrebbero potuto creare una serie di fondi d’investimento il cui ricavato – valutabile in una forchetta compresa tra i 200 e i 300 miliardi di euro – sarebbe andato a tagliare il debito pubblico italiano ormai vicino a valicare la soglia dei 3.000 miliardi. Ma si tratta di uno scenario che pare uscito dai radar della politica.

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Intanto, secondo il Centro studi Unimpresa, il debito pubblico italiano nel 2024 ha continuato a correre al galoppo, visto che nel giro di un solo anno è passato da una media mensile di crescita di 9,7 miliardi del 2023 ai 15,4 miliardi del 2024, con una crescita di circa il 50%.

«Questa cifra non è solo un numero astratto, ma rappresenta un vero e proprio macigno che grava sulle spalle dell’economia nazionale, limitando le possibilità di crescita e pesando sui bilanci delle future generazioni. Con un rapporto debito/Pil che resta tra i più elevati in Europa, l’Italia si trova in una situazione sempre più precaria, dove il debito pubblico diventa una zavorra per le politiche di sviluppo e per la stabilità economica – commenta il vicepresidente di Unimpresa, Giuseppe Spadafora -. Il debito abnorme non è solo una questione contabile: ogni anno lo Stato italiano spende miliardi di euro in interessi, denaro che potrebbe invece essere destinato a investimenti produttivi, infrastrutture, ricerca e sostegno alle imprese. Al contrario, il servizio del debito sottrae risorse vitali che potrebbero essere impiegate per rilanciare l’economia, e la spesa pubblica viene continuamente inghiottita dal pozzo senza fondo degli oneri finanziari».

In vista della Finanziaria 2025, dalla politica sarebbe lecito attendersi quanto hanno già fatto da anni le famiglie e le imprese italiane, riducendo la spesa e tagliando gli sprechi. Ma la politica pare poco propensa a fare un’operazione di pulizia di quei 120 miliardi di spesa pubblica giudicata aggredibile da parte di autorevoli studi sugli oltre 1.000 di spesa pubblica annuale per ridurre sprechi, clientele e ruberie varie per paura di perdere consenso elettorale.

Eppure, realtà come gli imprenditori di Confindustria si sono detti disponibili a rinunciare a 10 miliardi di sconti a patto che la medesima cifra fosse trasferita agli investimenti pubblici a sostegno della competitività del Paese. Ma anche questa proposta è finita nel nulla. E ciò getta una luce inquietante sulla reale capacità dei vari leader di partito nel gestire bene e nell’interesse collettivo la Repubblica italiana.

 

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