Finanziaria 2024: il cammino del governo Meloni si complica

L’effetto della guerra tra Israele e Palestina mette a rischio gli approvvigionamenti energetici con una spinta all’inflazione, con un generale rallentamento dell’economia.

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finanziaria 2024

Il nuovo scenario di guerra in Medio Oriente tra Israele e la Palestina rischia di complicare il quadro macro-economico su cui il governo Meloni ha improntato la prossima manovra di bilancio, creando ulteriore incertezza e rendendo ancora più difficile la quadratura economica della finanziaria 2024.

Nelle audizioni davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato per la finanziaria 2024 sono molti vertici delle istituzioni a sollevare scenari di ulteriore difficoltà economica per i conti nazionali, dalla Banca d’Italia alla Corte dei Conti, che non nascondono la preoccupazione di fronte ad uno scenario inaspettato che potrebbe portare a rivedere i numeri fissati poco meno di due settimane fa nella Nadef.

Per il presidente del Cnel, Renato Brunetta, i saldi «saranno quelli indicati correttamente dalla Nadef pre-guerra o saranno ridotti?», invitando a fare un ragionamento anche in vista dell’appuntamento del 16 ottobre quando il governo manderà a Bruxelles la tabella con i saldi.

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Per Brunetta il conflitto israelo-palestinese rischia di produrre sulla finanziaria 2024 effetti «ancor più squilibranti» della guerra in Ucraina, soprattutto sul piano energetico. E la «serietà» di questa Nadef, che fa i conti con l’inflazione e il superbonus ed esclude manovre espansive per i prossimi anni, «potrebbe non essere sufficiente», criticando anche le mosse tardive della Bce: servirà un «sovrappiù di responsabilità».

I rischi che gravano sull’attività economica sono già di per sé «elevati e orientati al ribasso» e «le tensioni geopolitiche – legate sia al conflitto in Ucraina sia ai feroci attentati dei giorni scorsi in Israele – generano forte incertezza sulle prospettive di crescita», rileva la Banca d’Italia.

Un contesto «fragile», che richiede una politica di bilancio condotta con «estrema prudenza», dice il capo del Dipartimento di Economia e statistica, Sergio Nicoletti Altimari, evidenziando come il quadro macroeconomico prefigurato nella Nadef sia «plausibile», ma «leggermente ottimistico». A preoccupare è soprattutto l’elevato rapporto tra il debito pubblico e il Pil: «un serio elemento di vulnerabilità», che «riduce gli spazi di bilancio per fare fronte a possibili futuri shock avversi».

L’ammontare del debito italiano allarma anche la Corte dei Conti. «Il perdurante stato di incertezza del quadro generale colloca ora la posizione debitoria del nostro Paese su un sentiero molto stretto», dice il presidente Guido Carlino, sottolineando la necessità di un «attento monitoraggio» affinché la «pur modesta» riduzione del debito/Pil programmata per il triennio «sia effettivamente conseguita». Nel complesso, il quadro economico, «pur confermandosi in territorio positivo, registra un peggioramento» per incertezze che vanno dal contesto geopolitico all’inflazione.

E in vista della manovra per la finanziaria 2024, su cui la Corte dei conti fa notare la mancanza nella Nadef della definizione e quantificazione degli interventi e delle relative coperture, avverte sulle privatizzazioni (l’1% di Pil richiederebbe uno «sforzo notevole») e lancia un monito sulla sanità: il quadro sulla spesa risulta «stringente», ma servono interventi urgenti e questo «richiederà scelte non facili». Il quadro è comunque fosco anche al netto della guerra.

«Gli indicatori più recenti suggeriscono per i prossimi mesi il permanere della fase di debolezza dell’economia», dice il presidente reggente dell’Istat, Francesco Maria Chelli. Tra gli elementi di freno, le condizioni di accesso al credito più rigide per famiglie e imprese (ma la Banca d’Italia esclude un “credit crunch”) e il lento recupero del potere d’acquisto delle famiglie.

A preoccupare è l’inflazione: a settembre «oltre il 58%» degli aggregati usati per l’indice «evidenzia un incremento dei prezzi uguale o superiore al 10% rispetto al 2019». C’è poi la perdita di valore dei salari: il loro livello reale è sceso sotto quello del 2009 e da allora il divario di crescita tra prezzi e retribuzioni contrattuali è stato di 12 punti.

Infine, c’è il Fondo nazionale di garanzia, gestito da Mediocredito centrale (Mcc) — sulla base dei dati aggiornati al 30 giugno scorso — che ha un ammontare di prestiti di circa 220 miliardi con garanzie pubbliche per 170 miliardi, a fronte delle quali ne sono stati messi 24 miliardi a riserva. I piccoli prestiti, inferiori ai 30.000 euro, sono stati accesi da 1,1 milioni di richiedenti per un totale di 18,5 miliardi. Quasi tutti a tasso fisso e calmierato all’1%, condizioni assolutamente vantaggiose vista l’attuale risalita dei tassi. Il periodo di preammortamento è terminato. E non emergono particolari criticità. A dimostrazione che le sofferenze, sui piccoli importi e sulla clientela più minuta, sono tradizionalmente più basse.

La situazionediversa per i prestiti garantiti di taglia maggiore (la media è 250.000 euro) che costituiscono l’80% del Fondo di garanzia, con circa 130 miliardi di garanzie pubbliche. La metà è a tasso variabile. Entro la fine dell’anno l’intero portafoglio dovrebbe essere in ammortamento. E così anche per i crediti concessi alle start up per 8,3 miliardi. Mcc, il cui amministratore delegato è Francesco Minotti, non segnala evidenze particolarmente negative. Il tasso complessivo di mancati pagamenti era a dicembre del 2022 al 2,6%, con una tendenza alla salita a giugno scorso.

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