Durante la COP26 di Glasgow svoltasi nel 2021, i partecipanti della Conferenza delle parti organizzata dall’Onu per ridurre le emissioni di gas climalteranti si erano impegnati ad accelerare la riduzione di combustibili fossili e di emissioni di carbonio, ma poco o nulla di tutto ciò è realmente accaduto. E anche la COP27 appena aperta in Egitto a Sharm El Sheik pare avviata sulla stessa strada del fallimento.
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Nel “Glasgow Climate Act”, i firmatari avevano stabilito di contenere l’aumento medio della temperatura terrestre entro 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, a ridurre del 45% le emissioni di CO2 entro il 2030, ad approvare e adottare i meccanismi dell’accordo di Parigi e a raddoppiare le misure finanziarie a sostegno dell’adattamento climatico. I Paesi partecipanti si erano poi impegnati ad aggiornare i piani nazionali con obiettivi più ambiziosi, salvo poi bigiare, visto che solo 24 Paesi su 193 hanno presentato i loro piani alle Nazioni Unite.
Il problema di fondo della COP27 è legato ai fondi necessari per una seria politica di gestione della riduzione delle sostanze climalteranti: si parla di almeno 340 miliardi di dollari all’anno, secondo la stima del Programma Onu per l’Ambiente. Sono oltre 12 volte i 29 miliardi effettivamente arrivati nel 2020, e tre volte e mezzo i 100 miliardi che erano stati promessi nel 2009 a partire dal 2020, e che probabilmente saranno raggiunti nel 2023. Soldi quasi esclusivamente pagati dai cosiddetti paesi sviluppati a favore di quelli in via di sviluppo, tra le cui fila albergano anche colossi economici come Cina e India, che solo grazie alla loro enorme popolazione riescono a fare valere un Pil pro-capite ancora da paese in via di sviluppo, a fronte di una Cina che annovera il secondo Pil mondiale con la freccia già inserita pronta per superare gli Stati Uniti nel giro di qualche anno.
Una crescita tumultuosa, specie quella di Cina e India, che sono anche tra i principali inquinatori globali: la Cina è il primo emettitore globale di CO2: nel 2017, 9.838.754.028 tonnellate, seguita con largo distacco dagli Usa, con 5.269.529.513, terza è l’India, con 2.466.765.373. Quarta la Russia, con 1.692.794.839.
Il problema per l’Europa e per i paesi industrializzati è che loro dovrebbero pagare e ridurre contemporaneamente le loro emissioni fino ad azzerarle (come l’Europa per il 2035) a fronte dei paesi che passerebbero all’incasso senza preoccuparsi di ridurre le loro – anzi, aumentandole di fatto – fino al 2050. Evidentemente alla COP27 c’è qualcosa che non va, anche in considerazione che la manifattura europea finirebbe inevitabilmente fuori mercato, vuoi per la maggiore competitività delle merci cinesi – spesso accompagnata da iniziali politiche di dumping finanziate con fondi statali per mettere fuori mercato la concorrenza locale – che finirebbero per azzerare la produzione continentale, come sì come è già avvenuto nel campo dei pannelli fotovoltaici e dei semiconduttori e come, probabilmente, avverrà anche per l’auto elettrica.
Ovvio che dietro le politiche di stampo ambientale della COP27 si celano anche ambizioni di potenza politica, strategica ed economica da parte di Cina ed India, ma costoro non possono pretendere di avere delle esenzioni totali dalle norme ambientali e pure le sovvenzioni economiche da parte dei paesi industrializzati.
Chi rischia grosso sono le società occidentali, ricche e viziate da una serie di decisioni politiche che abbracciano soprattutto le prestazioni sociali, dalla salute alle pensioni ai servizi pubblici, che sono a rischio di forti compressioni – se non di annullamento – per la consistente limitazione alla produzione di ricchezza, indispensabile per sostenere con le tasse i costi del sistema. Gli europei sono davvero pronti per uno scenario simile?
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