Materie prime agricole: il caro prezzi ha favorito gli esportatori, penalizzando i trasformatori

Italia particolarmente danneggiata per l’aumento del costo delle importazioni secondo il VII Forum Agrifood Monitor Nomisma.

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A confronto con i massimi del 2022 i prezzi delle materie prime agricole sono tornati sui valori precedenti lo scoppio del conflitto russoucraino, ma si attestano ancora su livelli superiori rispetto a due anni fa. Stesso andamento si riscontra per i prodotti energetici, con i prezzi del gas crollati dai picchi della scorsa estate pur rimanendo 3 volte superiori rispetto alle medie di lungo termine. Si tratta di un ritorno alla normalità, o è solo calma apparente? È da questo punto che è partita la riflessione del VII Forum Agrifood Monitor, organizzato da Nomisma in collaborazione con CRIF nato per comprendere le possibili evoluzioni della filiera agroalimentare.

L’analisi mostra dinamiche sui mercati internazionali profondamente mutate, tanto che, secondo la FAO, considerando le superfici in Ucraina seminate a cereali invernali (per il raccolto 2023), queste risultano inferioridel 40% rispetto alla media del 2017-2021. Una riduzione che coinvolge anche il mais, coltivazione per cui si prospetta una produzione di circa 21 milioni di tonnellate contro i 34 della media 2017-2021.

A questo si aggiunge la scadenza dell’accordo, prevista per il 18 marzo, per il “grano del Mar Nero”, stipulato con Russia, Turchia e ONU. Anche l’Argentina – che assieme all’Ucraina incide sull’export mondiale di mais per il 35% – a causa della siccità prevede per il 2023 una riduzione sensibile, sia nella produzione sia nell’export. Questa dinamica, sottolinea Nomisma, viene compensata a livello globale dalla crescita del Brasile, che nel 2022 è diventato il primo esportatoreassieme agli Stati Uniti, per questo tipo di cereale.

Artefice e protagonista della crescita del Brasile è stato proprio il mais (+230%), per il quale l’Italia ha registrato nello stesso anno – complice la perdurante siccità che ha interessato le zone più vocate a questa coltivazione – un raccolto più basso del 24% rispetto alla media 2017-2019, praticamente pari alla metà rispetto al picco avuto nel 2014.

«Nel panorama dei principali esportatori mondiali di prodotti agroalimentari, il Brasile rappresenta il Paese che più ha guadagnato da questo scenario fortemente condizionato da tensioni geopolitiche e avversità climatiche – sottolinea Denis Pantiniresponsabile Agroalimentare di Nomisma -. Nell’anno da poco terminato il Brasile ha messo a segno una crescita a valore del proprio export agroalimentare di oltre il 50%, superando i 126 Miliardi di euro e conquistando così il secondo posto assolutodopo gli Usa, nella classifica mondiale. La fiammata nei prezzi ha favorito gli esportatori di materie prime agricolepenalizzando invece i “trasformatori” come l’Italia: basti pensare che, mentre il Brasile ha ottenuto un surplus nella bilancia commerciale agroalimentare di 113 miliardi di euro (contro i 73 dell’anno precedente), l’Italia dai 4 miliardi di euro del 2021 è tornata in negativo, dopo diversi anni di avanzo, di 1,4 miliardi di euro».

Per l’Italia – quando si parla di autosufficienza delle filiere – la questione non riguarda però soltanto il mais visto che per il frumento, l’orzo, la soia, e carni e oli vegetali (ma anche lattezucchero e frutta in guscio) il fabbisogno del Paese risulta superiore alla produzione nazionale.

In uno scenario caratterizzato da un’elevata complessità e incertezza viene quindi da chiedersi quali siano le prospettive per l’Italia nel campo delle materie prime agricole. Negli ultimi dieci anni, a fronte di una produzione agricola e di consumi interni stazionari, l’export italiano è cresciuto a valore del 70%, posizionando il Paese al settimo posto nella classificadegli esportatori mondiali nel comparto cibo & alimentari. Alla luce del gap nella disponibilità di materie primeagricole, anche le importazioni sono parallelamente cresciute e la dipendenza dell’Italia dall’estero pone il Paese in una condizione di maggior precarietà e debolezza in contesti di estrema volatilità (sia dei prezzi sia degli scambi commerciali) come quello attuale.

Per quanto il 57% dell’import agricolo italiano derivi da paesi dell’Unione Europea, che rappresentano una sorta di “scudo” a protezione della sicurezza alimentare nazionale, per alcuni prodotti primari la dipendenza da aree extra-comunitarie è ancora alta (si pensi in particolare alla soia, all’olio di girasole, al grano duro).

«Non ci sono dubbi sul fatto che l’attuale situazione geopolitica mondiale porterà nei prossimi anni a rafforzare i legami e gli scambi commerciali tra blocchi di paesi amici – continua Pantini -. L’obiettivo, secondo l’analisi prodotta da Nomisma, sarà ridurre quei rischi di rotture nelle catene di approvvigionamento che da due anni a questa parte hanno generato, da un lato, rilevanti aumenti nei costi di produzione delle imprese, e dall’altro, fiammate inflattive nei prezzi al consumo di generi alimentari che non si vedevano da oltre trent’anni, con effetti a cascata sul carrello della spesa degli italiani».

Contestualmente, sarà altrettanto fondamentale, se non incrementare, quanto meno mantenere i livelli attuali di materie prime agricole di produzione nazionale con la consapevolezza che il tessuto produttivo agricolo italiano continua ad essere troppo frammentato. Il 40% delle aziende agricole italiane presenta una superficie coltivata inferiore a 2 ettari e il 27% delle aziende produce esclusivamente per autoconsumo.

A questo si aggiunge il fatto che solamente il 23% delle aziende agricole si trova inserito stabilmente in “filiera” (il 21% conferisce ad organismi associativi, il 2,5% vende attraverso accordi pluriennali con industria e distribuzione), vale a dire “strumenti contrattuali” in grado di mitigare i rischi della volatilità di prezzi e mercati. Accanto a questo il 33% della superficie agricola italiana è soggetta a forte erosione, mentre ogni giorno vengono consumati mediamente 19 ettari di suolo e in ultimo l’area mediterranea (e in particolare le regioni del Sud Italia) rappresentano un ”hot spot” del cambiamento climatico, dove negli ultimi sessant’anni si sono registrati gli aumenti più elevati delle temperature medie annuali, con effetti nefasti in termini di avversità climatiche, tra cui quella della siccità.

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