Nella seduta plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo del 6-8 giugno prossimo, i parlamentari dovranno discutere e approvare i contenuti del piano “Fit for 55” presentato dalla Commissione europea un anno fa, piano che contiene numerose azioni volte ad azzerare il volume limitato delle emissioni climalteranti europee (solo l’8% del totale globale) entro il 2050. Un piano che prevede un generale stravolgimento delle modalità operative della manifattura, che comporterà la perdita di numerosi punti di Pil e milioni di posti di lavoro.
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Uno dei settori economici maggiormente a rischio del piano “Fit for 55” è quello della filiera dell’automotive europea, con la Commissione europea che vorrebbe mettere al bando la commercializzazione sul mercato europeo dei motori termici a partire dal 2035. Una scelta che, secondo molti, è stata determinata dalla fruttuosa capacità di convincimento di numerosi lobbisti cinesi che hanno supportato l’ingresso in forza sul mercato europeo dei produttori di auto cinesi, che hanno puntato tutte le loro capacità di sviluppo sull’auto elettrica, più semplice costruttivamente rispetto a un veicolo con motore termico, comparto dove l’industria europea è leader indiscusso grazie agli sviluppi tecnologici apportati nel corso di 80 anni di attività. Peccato che i politici europei si siano fatti abbindolare dai lobbisti cinesi, abbracciando acriticamente solo la tecnologia della mobilità elettrica per abbattere le emissioni inquinanti, aprendo le porte, anzi, i portoni del mercato dell’auto europea ai produttori cinesi, mettendo fuori mercato la manifattura europea costretta a riconvertirsi in velocità, con piani miliardari d’investimento e migliaia di posti di lavoro tagliati.
Ma ne vale la pena? Assolutamente no, anche perché è scientificamente dimostrato che l’auto elettrica non è affatto ecologica come l’hanno contrabbandata i validi lobbisti del Dragone, giungendo ad essere più inquinante a livello globale di una moderna auto con motore termico, con quest’ultimo che può abbassare fino quasi ad azzerare le proprie emissioni se alimentato con carburanti alternativi, già sviluppati dall’industria europea.
Di qui l’appello delle industrie manifatturiere europee agli europarlamentari a votare avendo ben presenti gli interessi economici, sociali ed ambientali europei, non quelli cinesi, pena poi dovere spiegare ai loro elettori la perdita dei posti di lavoro e l’aumento della povertà.
Stesso discorso si può fare verso il nuovo piano europeo volto a potenziare la produzione di energia rinnovabile: “RePowerEu” si propone di obbligare l’adozione generalizzata di pannelli fotovoltaici su tutti gli edifici, a partire dal 2025 per quelli a destinazione pubblica e commerciale. Obiettivo condivisibile, ma peccato che la quasi totalità della produzione di pannelli fotovoltaici sia ormai monopolio della manifattura cinese che, grazie alle politiche di sussidio del governo comunista, ha fatto clamorose azioni di dumping mettendo fuori mercato e costringendo al fallimento la filiera europea dei pannelli, nonostante fosse nata prima di quella dei concorrenti cinesi. Anche qui, la mancanza di una puntuale azione politica a difesa degli interessi europei ha causato enormi danni, che ora si potrebbero decuplicare con l’obbligo indistinto di installare i pannelli fotovoltaici.
Se tale obbligo dovesse essere confermato, sarebbe opportuno accompagnarlo con una seria politica di reindustrializzazione, accompagnata da un altrettanto seria politica di dazi per stoppare lo strabordante potere concorrenziale – drogato dagli aiuti di stato – del prodotto cinese.
Buona visione.
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