Lavoratori: in Svizzera 120.000 i posti vacanti

Il dato è il più alto dal 2003: pesa la crisi demografica che, come l’Italia, attanaglia anche il paese elvetico.

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Alla fine del 2022, in Svizzera c’è fame di lavoratori, con più di 120.000 posti di lavoro vacanti, un numero che non si era mai visto dal 2003, anno in cui l’Ufficio federale di statistica (Ust) pubblicava i primi dati in merito.

I settori confrontati con questo fenomeno sono diversi e numerosi: manifatturiero, sanità, commerciale, alberghiero e della ristorazione, edile e informatico. La situazione elvetica è un importante riferimento per due motivi: presenta tendenze comuni alla situazione economica dei Paesi Ue e rappresenta un campanello d’allarme perché la Svizzera è tradizionalmente un Paese senza problemi di lavoro.

La fame di lavoratori in Svizzera è aggravata dalla disoccupazione più bassa degli ultimi vent’anni, pari al 2,2% per l’anno 2022 secondo la Segreteria di Stato dell’economia (Seco), che fotografa una situazione di piena occupazione. Il fenomeno è tutt’altro che limitato alla Svizzera. Una carenza di manodopera di proporzioni senza precedenti si sta verificando a livello globale, con tre aziende su quattro di tutti i settori che hanno segnalato difficoltà di reclutamento nell’edizione 2022 del sondaggio sulla mancanza di talenti del gruppo Manpower.

La forte ripresa economica successiva alla pandemia di Covid-19 ha incrementato la necessità delle aziende di far capo a determinate competenze per soddisfare l’aumento della domanda. Ma l’attuale carenza di personale è anche il risultato di fattori strutturali, a partire dall’invecchiamento della popolazione che, secondo Philippe Wanner, professore dell’Istituto di demografia e socioeconomia dell’Università di Ginevra, costituisce il principale problema.

Il tasso di fertilità è da tempo ben al di sotto del livello di sostituzione delle generazioni (2,1 figli per donna) anche in Cina, dove la popolazione diminuirà nel 2022 per la prima volta in 60 anni. Il pensionamento della generazione dei “baby boomer” – le persone nate tra il 1945 e i primi anni Sessanta – è già iniziato e si prevede che raggiungerà il picco entro il 2030, lasciando un vuoto che sarà difficile da colmare. Il problema è particolarmente sentito in alcune professioni come la medicina generale.

Dalla Svizzera all’Italia: negli ultimi venticinque anni la popolazione italiana è invecchiata tanto da portare l’etàmedia da 38 a 44 anni. Nello stesso arco temporale gli occupati under 35 sono diminuiti di 3,6 milioni mentre quelli con più di 45 anni sono cresciuti di 4,2 milioni, come riporta il Bollettino Adapt – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro. Solo nel 2022 l’Italia ha registrato un calo di 133.000 persone in età di lavoro (15-64 anni). Considerando gli ultimi 5 anni il calo è di 756.000 persone.

Il calo della popolazione italiana in età da lavoro è stato parzialmente bilanciato dalla crescita della popolazione straniera, ma l’andamento continua ad essere fortemente negativo. Al prezioso ruolo degli stranieri per l’economia e il welfare italiano si intreccia la questione delle competenze perché il livello di istruzione di stranieri e italiani è caratterizzato da un forte dualismo, che non migliora molto negli anni. Popolazione italiana15-35 anni: 18% licenza media; 50,7% diploma di scuola secondaria superiore; 30,5% laurea o un titolo post-laurea. Popolazione straniera 15-35 anni: 47% licenza media; 35% con il diploma di scuola secondaria superiore; 12,7% con laurea o titoli successivi. Questi dati, insieme a quelli che certificano l’invecchiamento demografico, aiutano a capire meglio il gap tra le competenze richiesta dal mercato e quelle offerte dalla plateadei lavoratori.

Il rapporto tra lavoro e demografia potrebbe assomigliare ad un boomerang secondo il prof. Wanner: «nelle società capitalistiche, le famiglie numerose sono difficilmente conciliabili con l’attività professionale di entrambi i genitori», tanto che sarebbe illusorio sperare di risolvere il problema della carenza di lavoratori agendo sul tassodi natalità, soluzione che, nella migliore delle ipotesi, richiederebbe molto tempo prima di dare i suoi frutti.

Da oltre vent’anni la Svizzera ha incentivato l’immigrazione anche in previsione dei problemi lavorativi che avrebbe subito in relazione alla propria demografia. L’Accordo bilaterale sulla libera circolazione delle persone(Alc) tra la Confederazione Elvetica e l’Ue è stato firmato nel 1999 ed è entrato in vigore nel 2002: in questi annila popolazione del Paese è cresciuta del 20% e quest’anno raggiungerà i 9 milioni. La crescita vertiginosa della popolazione non ha eguali in Europa ed è in gran parte attribuibile proprio agli elevati livelli di immigrazione: circa il 30% della popolazione svizzera non è nata in Svizzera.

A giugno 2023 Italia e Svizzera hanno ratificato un accordo per evitare la doppia imposizione dei lavoratori frontalieri, frequenti nelle zone di confine con le regioni Piemonte, Lombardia e Alto Adige, dopo che negli scorsi anni la Confederazione aveva approvato regole più stringenti per questa categoria di lavoratori.

Nel frattempo, qualcosa cambia all’orizzonte e difficilmente la Svizzera manterrà l’attrattività che per anni ha mantenuto grazie agli stipendi elevati e alle condizioni di vita e di lavoro migliori di quelle offerte dai Paesi limitrofi. La carenza globale di lavoratori sta intensificando la concorrenza tra i Paesi dando vita a quella che il prof. Wanner chiama “marketing demografico” per attrarre manodopera e lavoratori qualificati. Già adesso in Svizzera si sta verificando il fenomeno della diaspora portoghese: molti giovani lusitani stanno tornando in massa nel Paese d’origine grazie alle migliori condizioni economiche e alla politica di incentivi al rientro in patria attuata da Lisbona dal 2019.

Anche l’Italia ha da tempo adottato una politica per far rientrare i lavoratori che si sono trasferiti all’estero. Queste norme vengono comunemente conosciute come agevolazioni per il “rientro dei cervelli”, ma riguardano anche le attività manuali. Le agevolazioni per i lavoratori rimpatriati durano 4 periodi di imposta. Ecco leprincipali agevolazioni previste dal decreto “Crescita”: detassazione del reddito nella misura del 70% che diventa del 90% in caso di lavoratori con almeno tre figli minorenni o a carico; altre detrazioni per i lavoratori con uno o due figli a carico. Detrazioni per chi diventa proprietario di un’unità immobiliare residenziale in Italia dopo il trasferimento o nei 12 mesi precedenti; abbattimento della tassazione pari al 90% per docenti e ricercatori; tassazione dei redditi da lavoro dipendente o autonomo in una misura che va dal 10% al 30%; sgravio del 90% se i lavoratori trasferiscono la loro residenza in una delle seguenti regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna, Sicilia, fermo restando la durata dei benefici che decorrono dal periodo d’imposta in cui si trasferisce la residenza in Italia e per i quattro periodi successivi.

Per usufruire di queste agevolazioni, i lavoratori devono rispettare determinati requisiti, come ad esempio aver svolto attività di studio o di lavoro all’estero per almeno due anni, avere la residenza fiscale in Italia e impegnarsi a rimanere nel Paese per almeno due anni.

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