Sono 1.804 i seminaristi diocesani in Italia e confermano l’andamento negativo delle vocazioni che si registra da cinquant’anni. Nel periodo che va dal 2009 al 2019, la flessione in Italia dei seminaristi diocesani è di circa il 28%. Degli attuali seminaristi la maggior parte si trova in Lombardia con 266 unità (15% del totale) e nel Lazio con 230 (13%), mentre la Basilicata e l’Umbria sono le regioni con il numero di vocazioni più basse in assoluto, facendo registrare rispettivamente 26 seminaristi (1,4%) e 12 (0,7%). Un quadro che tuttavia cambia se si rapporta il numerodei seminaristi agli abitanti del territorio. In questa classifica, infatti, a primeggiare sono due regioni del Sud: la Calabria e la Basilicata.
«Se mancano le vocazioni non è un problema sociologico, o non soltanto», osserva don Michele Gianola, sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale della pastorale per le vocazioni. Il maggior numero di seminaristi (43,3%) ha un’età compresa tra i 26 e i 35 anni. La generazione più giovane – quella tra i 19 e i 25 anni – è rappresentata da 4 seminaristi su 10 (il 42,2% del totale). Un seminarista su dieci (13,6%) ha più di 36 anni.
Persiste la tendenza a provenire da famiglie con più figli: un solo seminarista su dieci è figlio unico, il 44,3% ha un fratello o una sorella, un quarto ne ha due (25,4%) e uno su dieci ne ha tre (10,8%). La stragrande maggioranza dei seminaristi ha frequentato le scuole superiori in una struttura statale (l’87,4%) e uno su dieci (il 12,6%) in una struttura paritaria. Tra i percorsi formativi offerti il 28,1% ha compiuto studi umanistici-classici, il 26,9% scientifici e il 23,2% si è diplomato in istituti tecnici. Solo uno su dieci (il 10,8%) ha fatto studi professionali.
«Un panorama notevolmente cambiato rispetto a qualche decennio fa, quando la quasi totalità dei candidati al sacerdozio – commenta la Cei – era in possesso della maturità classica». Quasi la metà dei seminaristi (il 45,9%), inoltre, ha frequentato l’università con indirizzi molto variegati e poco meno (43,3%) aveva un lavoro.
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