Continua la protesta delle categorie economiche e del mondo sindacale verso le proposte del Governo, che punta su interventi che penalizzano il lavoro e la previdenza
Sulla testa del premier Matteo Renzi continuano a grandinare le proteste delle categorie e del mondo sindacale circa le proposte avanzate in merito alla riforma della normativa sul lavoro e sull’immissione del Tfr in busta paga.
Secondo un’analisi condotta dall’Associazione artigiani Cgia di Mestre, «tra “Jobs Act” e anticipazione del Tfr le piccole e medie imprese rischiano un incremento della già pesante tassazione e la tenuta finanziaria». Secondo il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi, «nelle ultime settimane il dibattito sul “Jobs Act” si è concentrato quasi esclusivamente sulla riforma dell’ articolo 18. Poco o nulla, invece, si è discusso sulla revisione degli ammortizzatori sociali. Tra le altre cose, il riordino delle misure di sostegno al reddito comporterebbe la graduale estinzione della cassa integrazione in deroga, attualmente coperta dalla fiscalità generale, che dovrebbe essere sostituita dal sistema della bilateralità o del Fondo residuale all’INPS. Ovviamente, questo nuovo sistema dovrebbe essere sostenuto economicamente anche dalle piccole aziende che, pertanto, subirebbero un incremento del carico contributivo».
Per le Pmi i problemi legati al “Jobs Act” non finiscono qui. «E’ probabile – continua Bortolussi – che l’attuale contributo sui licenziamenti dei lavoratori con un contratto a tempo indeterminato venga addirittura triplicato. Per un dipendente lasciato a casa per ragioni economiche, l’azienda dovrebbe versare all’Inps, in relazione all’anzianità lavorativa, da un minimo di 1.500 euro circa ad un massimo di 4.500 euro lordi. Se un imprenditore, suo malgrado, dovesse licenziare un dipendente perché l’attività va male e non ha più le risorse per assicurargli il posto di lavoro, dove troverebbe i soldi per alimentare l’Aspi? Inoltre, l’apprendistato è contrattualmente un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Se al termine della fase di apprendimento l’imprenditore decidesse di non confermare il dipendente, dovrebbe pagare fino a 4.500 euro circa. Vi sembra una cosa sensata? E’ chiaro che prima di assumere un giovane ci penserà due volte». Con buona pace dell’occupazione, specie quella giovanile, ambito in cui l’Italia governata dal centrosinistra renziano vanta il primato della disoccupazione giovanile tra le più alte d’Europa.
Per quanto riguarda l’eventuale anticipazione del Tfr in busta paga, Bortolussi si schiera tra coloro che in questi giorni hanno manifestato forti perplessità sulla realizzazione di questa misura: «se, come apprendo dalla lettura dei quotidiani, l’operazione sarà a costo zero per l’imprese private, per quale motivo il Governo non estende la possibilità di richiedere l’anticipazione della liquidazione anche ai lavoratori del pubblico impiego? In realtà le cose stanno diversamente da come le presentano e l’eventuale anticipazione della liquidazione avrebbe degli effetti finanziari molto negativi sui bilanci delle Pmi. E’ vero, il Tfr è una forma di salario differito, ovvero sono soldi dei lavoratori; tuttavia, con la crisi che non accenna a dare segni di tregua, con la scarsa liquidità e la sottocapitalizzazione che da sempre caratterizza le Pmi, da dove potrebbero recuperare i piccoli imprenditori le risorse necessarie per anticipare la liquidazione? Gli istituti di credito, lo sappiamo bene, in questo momento prestano il denaro solo a chi ha una certa solidità finanziaria; agli altri, purtroppo, l’accesso al credito bancario è praticamente precluso».
Sull’ipotesi di inserire il Trf nella busta paga interviene anche il presidente di Confcommercio del Veneto, Massimo Zanon: «l’ipotesi di conferire in busta paga il 50% del Tfr è un modo per scaricare su lavoratori e aziende la soluzione di un problema, facendola passare per una “grande trovata” del Governo. In realtà, quelli sono soldi del lavoratore. Lo Stato cosa ci mette di suo?». Per Zanon «in sostanza, senza fare il minimo sforzo, si chiede a lavoratori e aziende di arrangiarsi per risolvere il problema della ripresa dei consumi. In secondo luogo, ma solo in secondo luogo, l’anticipo percentuale del Tfr ridurrebbe la già forte carenza di liquidità delle piccole e medie imprese, che l’assistenza bancaria ventilata da Renzi non risolverebbe, poiché le imprese stesse dovrebbero poi pagarla in qualche modo, e comprimerebbe ulteriormente i margini di redditività delle imprese con conseguenti difficoltà a conservare gli attuali livelli occupazionali. Di certo, non farebbe ripartire i consumi: lo dimostra il fatto che, ad esempio, gran parte dei cittadini che hanno usufruito degli 80 euro in più in busta paga li hanno impiegati secondo il “principio di precauzione” in strumenti assicurativi e previdenziali». «Per ridare fiato ai consumi – conclude Zanon – è necessario, come chiediamo da tempo, ridurre la pressione fiscale per cittadini e imprese secondo un progetto strutturale in grado di ridare fiducia al mercato».
Sul tema del Tfr in busta paga sono critici anche i sindacati: a partire dalla riforma Dini poi ampliata da quella Fornero, con l’entrata in vigore del sistema contributivo per il calcolo delle pensioni la quota di copertura a fine impiego del lavoratore sarà decisamente più bassa di quanto potevano contare coloro che venivano pensionati con il sistema retributivo. Da un livello del 75-80% dell’ultimo stipendio (e anche oltre in determinate categorie) si passa a un più basso 50-60%. Da questo consistente taglio è nata la previdenza integrativa, il cosiddetto “secondo pilastro” che va ad affiancarsi alla previdenza principale. Canale alimentato proprio dal Tfr. Se Renzi e allegra compagnia vuole utilizzare le somme del Tfr per alimentare una sorta di quattordicesima da erogare a febbraio, come si alimenterà la pensione integrativa dei lavoratori?