Referendum costituzionale e rappresentatività politica: è crisi?

Intervista con il sociologo della politica Marco Brunazzo su politica, rappresentatività, eletti ed elettori, partiti personali, governabilità, riforma elettorale e costituzionale.

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Marco Brunazzo, professore associato di Scienza politica alla facoltà di Sociologia dell'Università di Trento.

Tra poco meno di un mese, il 20 e 21 settembre gli italiani saranno chiamati al voto per il referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari e, in sette regioni e numerosi comuni, anche per le elezioni amministrative.

Si tratta di un appuntamento elettorale importante, dove la politica è chiamata ad una sorta di ultimo appello tra partecipazione e rappresentatività elettorale, oltre che un indiscutibile referendum sull’operato del governo BisConte e della sua maggioranza, che potrebbe aprire anche la strada ad elezioni politiche anticipate la prossima primavera.

Con Marco Brunazzo, professore associato di Scienza politica alla facoltà di Sociologia dell’Università di Trento una serie di riflessioni sul mondo della politica, il comportamento degli elettori e l’attuale sistema rappresentativo.

Professor Brunazzo, come vede la politica dal suo osservatorio, dove la separazione tra aspirazioni dei cittadini, andamento dell’economia e decisioni politiche sono sempre più ampie e, spesso, tra loro in contrasto? È veramente crisi della Politica?

Domanda impegnativa che meriterebbe ore di discussione e di riflessione, tanto è vero che gli scaffali delle biblioteche che parlano di crisi della politica e della democrazia sono pieni di volumi, ciascuno con la propria analisi e possibili soluzioni. Non c’è dubbio che nella società sia evidente la crisi della politica, sia intesa come momento di partecipazione che di rappresentatività delle aspettative dei cittadini-elettori. Questa situazione è legata a doppio filo anche alla nascita e crescita decisa dei partiti populisti e sovranisti che hanno fatto venire meno le ideologie su cui si sono fondati i partiti storici nati all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale (alcuni anche prima) e che sono arrivati a scavallare il cambio del millennio. Si è passati da partiti strutturati a partiti basati sulla figura del relativo leader, più o meno carismatica.

Quando si è acuita questa crisi? Forse quando è cambiato il sistema elettorale introducendo le liste bloccate che ha azzerato la possibilità di scelta degli elettori con la preferenza consegnando il potere di scelta ai vertici dei partiti?

Credo sia opportuno distinguere tra fattori strutturali e contingenti. La crisi della politica nel mondo postbellico è sempre esistita, anche se negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo, in coincidenza con la ricostruzione, prima, e con il boom economico, poi, ci sono stati periodi in cui questa è stata indubbiamente più sfumata, grazie al consenso generale da parte della popolazione per la continua, decisa crescita dell’economia nazionale che ha consentito di fare progredire il Paese trasformandolo in una moderna e ricca realtà manifatturiera e, negli anni più recenti, anche di servizi avanzati. Man mano che nascevano nuove strutture politiche internazionali, su tutte la nascita della futura Unione Europea, è cambiato anche lo scenario in cui si muoveva la politica, cambiando i programmi dei partiti e del loro ambito d’azione. Si è passati di una politica riferita solo all’interno dei confini nazionali per allargarsi ad una sovranazionale. In Italia, tale mutamento è stato più forte che in altri paesi per via della forte divisione ideologica tra i due grandi gruppi che sostanzialmente si riconoscevano nella Democrazia Cristiana e nel blocco comunista-socialista. Con l’avvento del terremoto politico di Tangentopoli e il rafforzamento dell’azione politica e decisionale dell’Unione Europea la ragion d’essere di molti partiti è venuta meno. Venendo ai fattori contingenti, questi solo legati al fatto che in Italia non si è mai affrontato seriamente il tema di una riforma compiuta del sistema elettorale e dell’assetto costituzionale. Il Parlamento ha prodotto molte leggi elettorali, alcune approvate frettolosamente sull’onda delle convenienze immediate della maggioranza di turno, ma senza preoccuparsi di creare un sistema omogeneo e coerente con l’assetto istituzionale del Paese. Si è tentato di puntellare elettoralmente maggioranze uscenti traballanti, con risultati spesso non in linea con le attese dei loro promotori.

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Una seduta parlamentare.

Lei introduce il tema delle leggi elettorali approvate praticamente a ridosso di ogni elezione politica. L’aver introdotto le liste bloccate definite dalle segreterie dei partiti ha forse allargato il solco tra il mondo politico e i cittadini che prima potevano scegliere con la preferenza il candidato ritenuto più capace?

In linea di massima condivido il fatto che con l’introduzione delle liste bloccate molti candidati sono stati sollevati dalla necessità di cercare il voto per la propria persona, allontanando così il contatto tra politica ed elettori, ma sono scettico sul fatto che l’abrogazione della preferenza sia stato il detonatore del distacco dei cittadini dalle scelte della politica. Le evidenze storiche delle votazioni a tutti i livelli dimostrano che quando era possibile esercitare la preferenza solo un ridotto numero di elettori lo faceva, mentre la stragrande maggioranza finiva solo con il barrare il simbolo del partito preferito. Tra le motivazioni che hanno portato all’abolizione della preferenza, oltre al ridotto numero che la esercitava, c’è anche il fatto che così si è eliminato il voto di scambio tra eletto ed elettore

Per riavvicinare elettori e politica si potrebbe, nell’ambito della discussione sull’ennesimo cambio di legge elettorale, introdurre finalmente il doppio turno di collegio, forse il sistema elettorale più chiaro e trasparente tra quelli esistenti.

Sarebbe uno strumento elettorale decisamente migliore di quello esistente e il suo utilizzo in Francia ha ampiamente dimostrato di essere efficiente e di assicurare maggioranze di governo stabili e durature. Con il doppio turno elettorale, nel primo turno l’elettore è portato a valorizzare la massima competizione tra le singole forze politiche, mentre nel secondo si dà forza alle coalizioni di partiti. In Italia abbiamo adottato sistemi proporzionali corretti spuri con tendenze maggioritarie senza mai fare il passo definitivo verso la chiarezza di un sistema elettorale ben strutturato.

Al di là del sistema elettorale, il problema di fondo rimane l’assetto istituzionale del Paese.

I problemi italiani delle lungaggini decisionali derivano da un assetto costituzionale troppo complesso, con un bicameralismo perfetto che comporta il raddoppio dei tempi decisionali, anche se negli ultimi tempi questo è stato decisamente compresso con il ricorso ai voti di fiducia in una camera su provvedimenti discusi solo in un ramo del Parlamento, con conseguente compressione dei diritti costituzionali di deputati e senatori. A questo si aggiunge un rapporto tra Parlamento e governo dove il sistema è destinato a gripparsi. 

Con il referendum costituzionale sul taglio al numero dei parlamentari la situazione cambierà in meglio o in peggio?

Se il referendum avrà successo, si passerà dall’avere un Parlamento molto pletorico ad una rappresentanza più ridotta, ma comunque in linea con la media europea. Non bisogna dimenticare che negli Stati Uniti, con una popolazione quadrupla di quella italiana, esiste un Senato di 100 membri e un Congresso di 435 rappresentanti. Quindi, l’Italia con circa 600 tra deputati e senatori, in confronto agli Usa, avrebbe ancora una rappresentanza politica molto elevata. Il dubbio è che dal referendum, in caso di approvazione, nasca un altro caso di riforma monca, dove si taglia il numero dei parlamentari senza, contemporaneamente, avviare una seria riforma costituzionale dei rapporti tra Parlamento e Governo. Se è così, saremmo dinanzi ad una riforma che ha scarse possibilità di reale successo.

Con l’avvento dei partiti costruiti sulla figura del loro leader, è venuta meno la selezione per carriera e per esperienza dei vari candidati, dove il criterio della fiducia e, spesso, della condivisione acritica della linea del leader ha avuto la meglio sulle effettive capacità dei candidati proposti nelle liste bloccate.

I promotori del referendum sul taglio dei parlamentari sostengono che diminuendo il numero dei parlamentari aumenta la qualità degli eletti: mi sembra un concetto molto astratto e rischioso, perché i parlamentari sono lo specchio del Paese e del partito che rappresentano. Il fatto che i partiti basati sulla figura del leader abbiamo privilegiato su tutto il criterio della fiducia dei candidati verso il proprio vertice e la parallela diffusione dell’idea che in politica non serve essere degli esperti e che le capacità dei singoli non contino lo stiamo vedendo negli ultimi anni, con provvedimenti abborracciati e leggi che innescano conflitti interpretativi ed applicativi ad ogni passo. Fare politica è un’attività molto seria, dove servono esperienza e capacità. Nei partiti “novecenteschi”, era la struttura del partito nelle sue varie articolazioni territoriali a selezionare i candidati più promettenti per i vari incarichi e prima di arrivare a quelli di vertice bisognava fare la gavetta e passare attraverso un vero “cursus honorum”. Non ci si sognava di passare dal nulla a ministro o capo di governo senza prima avere fatto un congruo numero di anni nelle amministrazioni comunali, regionali o in Parlamento. Oggi tutto ciò non avviene più, perché i partiti personali che rispondono solo al proprio leader di turno hanno sostituito l’esperienza e la capacità con la fiducia e la fedeltà alla linea del capo, spesso in modo del tutto acritico. Questa è anche una delle cause per cui i partiti leaderistici nascono, prosperano e muoiono a seconda delle fortune del proprio leader, che, essendo privo di una reale struttura organizzativa alle sue spalle, spesso effettua decisioni affrettate e talvolta erronee. Non c’è dubbio che ritenere tutti in grado di fare qualsiasi cosa, politica e governo compresi, sia stata una delle cause dell’abbassamento generale, financo pericoloso, della qualità della classe politica italiana a tutti i livelli.

Parlando di partiti legati a doppio filo alla figura del proprio leader, la Lega di Salvini che ha abiurato alla sua storia di “sindacato” politico del Nord per abbracciare il panorama nazionale ha fatto la scelta giusta o si rivelerà un boomerang?

Credo che questa sia la domanda che da qualche mese arrovella i pensieri di Matteo Salvini, una domanda cui nemmeno lui ha la risposta giusta. Salvini ha cambiato la Lega in tanti modi, la più evidente delle quali è stata quella di trasformarla da un partito forte e radicato in una sola parte del Paese, il Nord Italia, in una forza politica nazionale. Mi sembra evidente che questa decisione non sia stata apprezzata da parte degli elettori tradizionali del Nord e da larghissima parte della sua base dei militanti storici del partito. Il secondo grande cambiamento portato da Salvini è stato l’aver reso il partito personale con l’inserimento del proprio nome nella ragione sociale alle spese di quella storica “Nord”. Il terzo è stato nella comunicazione, con la spinta al massimo dell’impiego dei canali social per raggiungere in modo capillare soprattutto i tantissimi elettori che non votavano Lega, ma che erano critici verso la gestione della cosa pubblica, cosa che ha consentito a Salvini di portare un partito ai minimi storici del 4% al 34% delle Europee e, seppur con il 10% in meno dai massimi, all’attuale 25% circa che continuano a renderlo, almeno nei sondaggi elettorali, il primo partito italiano. Tra gli errori compiuti da Salvini, l’aver rinunciato alla struttura di partito che sotto Bossi si era radicata capillarmente in tutto il Nord Italia. Detto tutto ciò, non siamo in presenza di una crisi della Lega o del “salvinismo”, ma ci sono importanti elementi di riflessione da fare per la Lega e il suo futuro.

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Il leader della Lega, Matteo Salvini.

Si riferisce al fatto che sta nascendo una sorta di reazione alla Lega “nazionale” con la ripresa di movimenti locali, ad iniziare da quella della storica Liga Veneta alle elezioni regionali del Veneto?

Sì ma non solo. Aggiungerei il fatto che la trasformazione da un partito strutturato in uno personalistico non ha mai portato bene ai vari leader nazionali che hanno seguito questa strada. Berlusconi, prima, con Forza Italia. Renzi, poi, con il Pd. Ora Salvini con la Lega non più Nord. Nel momento che l’attrattività del leader crolla, quando non è più convincente per l’elettorato, il partito è destinato inevitabilmente a seguire la sorte del suo leader, crollando nei consensi. Si tratta di partiti che vivono i successi e i tracolli del loro leader, macchine che portano valore solo al proprio capo con nocumento sulla vita democratica del Paese perché i parlamentari eligendi ed eletti devono il loro successo alle fortune del leader, comprimendo di fatto la loro autonomia, autorevolezza e libertà di giudizio. Tra gli aspetti positivi dei partiti personali è la chiara e univoca attribuzione di responsabilità al leader di partito, senza la possibilità di cercare alibi.

Dallo scenario nazionale a quello locale, e molto, relativo alle elezioni comunali nella città di Trento. Come giudica il comportamento del centro destra che, dopo avere scelto il proprio candidato sindaco a seguito di una defatigante selezione tra vari candidati, ha scelto, dopo mesi che diceva che fosse il migliore candidato possibile, di scaricarlo e di cambiare cavallo? Non si rischia di allontanare l’elettore con simili comportamenti?

Un comportamento del genere è testimone della massima confusione sulle scelte da compiere da parte dei partiti che compongono la coalizione di centro destra, perché ingenerano nell’elettorato l’idea che non ci sia chiarezza nell’operato e si faccia largo una certa strumentalità nell’utilizzo di nomi e persone che poi vengono scaricate senza alcuna giustificazione. Meglio avrebbe fatto a discutere ancora sul candidato migliore da proporre e, una volta scelto, sostenerlo a spada tratta, costi quel che costi. La storia della politica è piena di scelte che con il senno del poi si sono rivelate sbagliate, ma fa parte del gioco. Agire come nel caso di Trento evidenzia solo una forte debolezza della coalizione di centro destra che sottolinea, nonostante il successo nel collegio elettorale cittadino alle scorse Politiche, la scarsa penetrazione della coalizione sul tessuto sociale, economico e politico della città.

Se la Lega trentina voleva dare ulteriore prova degli indiscutibili successi conseguiti alle Politiche e alle Regionali, non poteva puntare su un proprio candidato di bandiera, visto che al suo interno le figure di prestigio non mancano?

Dall’esterno dei partiti sono considerazioni difficili da fare. L’impressione è che la Lega avrebbe potuto e dovuto osare maggiormente proponendo un proprio candidato, forte del successo elettorale conseguito anche in città di Trento. Probabilmente, il vertice del partito è stato troppo timido nell’assumersi una responsabilità con il presentare una candidatura di prestigio. Ma, così, è probabile che l’elettorato finisca con il non premiare la coalizione di centro destra perdendo l’occasione di un cambio di governo alla guida della città capoluogo.

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