Continuano gli studi sul conto economico da coronavirus, i cui effetti sono più da psicosi che di effettiva pericolosità (appena superiore a quella di una normale influenza annuale), ma che finiscono con l’avere pesanti effetti sull’economia nazionale.
Secondo le valutazioni di Ref Ricerche, l’economia italiana rischia di pagare «un prezzo molto salato» con l’emergenza coronavirus: l’epidemia e soprattutto le misure adottate per contenerla causano nel breve termine un minor Pil compreso tra 9 miliardi e 27, a seconda delle ipotesi adottate sull’entità delle perdite e dei guadagni nei diversi settori.
La stima di Ref Ricerche considera l’impatto diretto della diffusione del virus nelle regioni italiane, con effetti immediati e di più lunga durata, a seconda del settore considerato. Si ricorda che Lombardia e Veneto, le due regioni dove maggiori sono stati i casi e più drastiche le misure di contenimento, contano per il 31% del Pil italiano. Aritmeticamente, una contrazione del 10% del Pil in sole queste due regioni significa una diminuzione del 3% di quello nazionale, spedendo il Paese in una nuova, pesante recessione.
La flessione per l’intera economia stimata da Ref Ricerche va da un -1% a un -3%. Sono variazioni cumulate nel primo e nel secondo trimestre 2020: la scoperta dei primi casi, le misure di contenimento e la diffusione della paura tra la popolazione sono avvenuti nell’ultima decade di febbraio e quindi incideranno solo su una parte del primo trimestre, mentre dispiegheranno appieno i loro effetti nel secondo. Questa stima si basa su una valutazione degli effetti sui singoli settori, raggruppati in quattro categorie in base alla gamma di probabile variazione del rispettivo valore aggiunto e poi calcolando il peso di tali categorie sul Pil totale.
Il primo gruppo comprende quei settori che vedono aumentare tra il 2% e il 6% la loro attività in conseguenza dell’epidemia virale (attività legate alla farmaceutica, alla cura della casa e i servizi connessi al lavoro da remoto e alle video conferenze); il suo peso è dell’8,5%. Il secondo gruppo è di gran lunga il più importante (vale il 54,6% dell’interaeconomia) e non patisce sostanziali variazioni di attività a causa del virus. Il terzo gruppo incide per il 25,1% e patisce una contrazione produttiva limitata (al più del 4%). Infine, c’è l’insieme dei settori che stanno subendo contraccolpi molto forti(tra -10% e -40%), ma che hanno un peso contenuto (11,7%; dalla filiera del turismo, a tutte le attività legate a centri di aggregazione).
Per evitare danni ancora peggiori all’economia nazionale, è necessario riavviare al più presto il “motore” dell’economia nazionale, vale a dire Lombardia e Veneto. Per farlo, più che i pannicelli caldi sfornati dal governo BisConte che prevede solo una serie di posticipazioni nei pagamenti di tasse, contributi e bollette varie, bisognerebbe attuare subito un anticipo di uno dei principi cardini del processo autonomistico attivato dalle regioni ordinarie: lasciare sui territori che li producono parte di quel residuo fiscale oggi aspirato dall’idrovora statale (che trasforma in sprechi, clientelismo, assistenzialismo e maggiore debito pubblico). Ecco, sarebbe utile che in un sussulto di dignità il governo BisConte lasciasse anche solo il 20% di quel residuo fiscale “estorto” alla Lombardia (54 miliardi) e al Veneto (16 miliardi): con 10,8 e 3,2 miliardi in più rispettivamente, Fontana e Zaia potrebbero fare tanto per limitare gli effetti del conto economico da coronavirus ad iniziare dallo sbloccare le scuole di specializzazione e le successive assunzioni per i medici, oltre che per supportare l’economia locale.
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