Nonostante la recessione del Paese sia già in atto e sia destinata ad amplificarsi clamorosamente sotto l’azione della pandemia da Coronavirus, il governo Bisconte e la pubblica amministrazione centrale e periferica blocca 115 miliardi di spesa tra debiti commerciali non ancora onorati (53 miliardi di euro) e la mancata apertura di tantissimi cantieri relativi a infrastrutture strategiche e a opere pubbliche minori distribuite lungo il Paese (per un valore di 62 miliardi) già in gran parte finanziate.
La Cgia di Mestre denuncia una situazione economica al limite del masochismo: «mentre aspettiamo che i 27 Paesi dell’UE trovino un accordo per consentire l’utilizzo dei “coronabond” – afferma il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo – nel frattempo sarebbe opportuno che la nostra pubblica amministrazione pagasse i propri fornitori e fosse in grado di avviare le tante opere pubbliche che, ironia della sorte, sono in buona parte quasi tutte finanziate. Se sbloccate, queste misure darebbero una prima importante iniezione di liquidità al sistema economico del Paese, invece, la cattiva burocrazia e il malfunzionamento della macchina pubblica continuano a rappresentare un problema molto serio, quanto la rovinosa caduta che l’economia italiana si appresta a subire nei prossimi mesi».
Mai come in questo momento, famiglie e imprese, soprattutto quelle di piccola dimensione, avrebbero bisogno di liquidità e nonostante le misure messe in campo dal Governo si continua a non affrontare il cuore del problema.
Dei 53 miliardi di debiti commerciali contratti dalla pubblica amministrazione, secondo la Cgia sarebbero causati dalla la mancanza di liquidità da parte del committente pubblico, seguita dai ritardi intenzionali, cui fa eco la consolidata inefficienza di molte amministrazioni a emettere in tempi ragionevolmente brevi i certificati di pagamento.
A queste ragioni ne vanno aggiunte almeno altre due che, tra le altre cose, il 28 gennaio 2020 hanno indotto la Corte di Giustizia europea a condannare il governo italiano. Esse sono: la richiesta, spesso avanzata dalla pubblica amministrazione nei confronti degli esecutori delle opere, di ritardare l’emissione degli stati di avanzamento dei lavori o l’invio delle fatture; l’istanza rivolta dalla pubblica amministrazione al fornitore di accettare, durante la stipula del contratto, tempi di pagamento superiori ai limiti previsti per legge senza l’applicazione degli interessi di mora in caso di ritardo.
Sul fronte delle opere pubbliche, secondo l’Ance (Associazione nazionale costruttori edili) sarebbero quasi 750 le opere pubbliche ferme nel Paese che non consentono di investire 62 miliardi di euro. Oltre a scuole, strade, ospedali ci sono anche una trentina di grandi opere infrastrutturali strategiche, la quasi totalità già finanziate, che non decollano a causa degli intoppi burocratici relativi alle procedure amministrativo-progettuali richieste, alle guerre giudiziarie in atto tra le imprese o a seguito del tira e molla in corso tra la politica centrale e quella locale.
Se, da un lato, questa situazione che blocca 115 miliardi di spesa non consente l’ammodernamento del Paese, dall’altro, non dà alcun contributo alla crescita della domanda interna che mai come in questo momento dovrebbe essere supportata.
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