Secondo la Banca d’Italia a luglio il debito pubblico dello Stato raggiunge nuove vette a causa di un aumento di 23,5 miliardi di euro rispetto al mese precedente, che porta l’ammontare complessivo al livello record di 2.409,9 miliardi. In calo invece sempre a luglio le entrate tributarie che sono state pari a 46,5 miliardi, in diminuzione del 5,9% (2,9 miliardi) rispetto allo stesso mese del 2018.
«Il debito pubblico ha toccato un nuovo record storico a oltre 2,4 trilioni di euro (pari al 135,5% del Pil) – commenta il deputato Renato Brunetta, responsabile economico di Forza Italia -. Ci chiediamo se per caso il Partito Democratico non abbia cambiato improvvisamente il proprio credo sulla politica economica, abbia tirato i remi in barca sulla lotta al deficit e si sia lasciato incantare dalle sirene della maggior spesa, solo per accontentare i suoi elettori».
Allarme debito pubblico anche dal presidente dell’Associazione Bancaria Italiana, Antonio Patuelli, secondo cui «preoccupa la crescita del debito pubblico che continua a crescere da fine anni 60. E di conseguenza ritengo molto positivo ciò che ha dichiarato in questi ultimi giorni nuovo ministro all’Economia Roberto Gualtieri, che ha detto che bisogna trovare il modo per invertire la tendenza e dare prospettiva riduzione debito pubblico. Questa prospettiva – secondo il presidente di Abi – porterebbe circuito virtuoso di ulteriore riduzione dello spread e quindi di minor debito pubblico ed i minore necessità di copertura disavanzo dello Stato. Ho questa speranza».
Ma dove origina questo mostro economico che zavorra il futuro dell’Italia e dei suoi abitanti? Il debito pubblico statale ha iniziato a crescere a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso che ha portato al governo, fino ad allora competenza quasi esclusiva della Democrazia Cristiana e delle sue stampelle centriste, le sinistre che hanno preteso l’allargamento dello stato sociale fatto interamente a debito. In quasi quarant’anni, la spesa assistenziale per il tramite dell’Inps è letteralmente esplosa, generando un buco sempre più grande nei conti dello Stato, perché l’assistenza è interamente finanziata dal gettito fiscale, mentre le pensioni hanno dietro i contributi dei lavoratori con un conto economico equilibrato.
Anche la sempre denegata separazione tra i due interventi, tra l’erogazione delle pensioni – in attivo – e l’erogazione delle prestazioni assistenziali – in fortissimo passivo – è servita solo per nascondere l’evidenza. In moneta 2015, il disavanzo cumulato dall’Inps dal 1980 al 2015 pesa sul totale del debito pubblico per la metà del totale, pari a 1.209 miliardi di euro, cui si deve aggiungere il deficit delle gestioni pensionistiche dei dipendenti pubblici pari ad altri 282 miliardi di euro circa. Di fatto, queste due voci costituiscono il 62% circa dell’intero ammontare del debito pubblico.
Se poi si va a leggere la relazione su dove questa spesa viene effettuata realizzata da un esperto del settore previdenziale come Alberto Brambilla, emerge che il Mezzogiorno è responsabile di quasi il 62% dell’intero disavanzo dovuto alla spesa sociale, a fronte del 14,7% del Centro e del 23,4% del Nord. Tradotto procapite, il debito assistenziale pesa per quasi 10.000 euro per ogni cittadino del Nord, circa 6.380 per uno del Centro e per circa 27.000 per uno del Sud. Insomma, il “buco” nei conti del bilancio dello Stato deriva in gran parte dalle zone meno produttive e più assistite del Paese, che vedono come la pesteogni tentativo di maggiore loro responsabilizzazione senza essere continuamente attaccate alla flebo delle risorse trasferite dal Nord Italia.
Naturalmente, nessuno degli attuali amministratori pubblici di maggioranza e di minoranza si guarda ben di tagliare, anche minimamente, parte di quei 100 miliardi che lo Stato spende ogni anno in prestazioni assistenziali: anzi, se possibile fa di tutto per incrementarli, a partire da un inutile e regressivo reddito di cittadinanza.
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