Economia italiana, il “Quantitative easing” della BCE fino a ora non ha funzionato

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Secondo l’analisi condotta dalla Cgia di Mestre in un anno sono stati acquistati 87 miliardi di titoli pubblici italiani, ma l’inflazione è a zero e i prestiti alle imprese sono diminuiti di 15 miliardi

 

euro soldi sfera biglietto 500La situazione economica italiana non volge al bello, almeno nel breve periodo. Dopo la “scoperta” che nel 2015 la crescita del Pil è stata di solo lo 0,6% (ben al di sotto del già striminzito 0.9% previsto dal Governo e dal 0,8% festosamente twittato dallo stesso Renzi non appena l’Istat aveva pubblicato il dato preliminare non depurato degli effettivi giorni lavorativi), la deflazione che allarga sempre più il suo spettro d’azione rallentando la crescita economica ed impoverendo la popolazione, ora emerge che anche la medicina erogata in grande quantità dalla Banca Centrale Europea (Bce) pare non abbia avuto grandi effetti nel risollevare il malato. A un anno dall’avvio dei massicci acquisti di titoli da parte della Bce (60 miliardi al mese), non trovano soluzioni i problemi nell’Eurozona della bassa inflazione e della stretta dei prestiti alle imprese.   

Secondo l’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, l’obiettivo di riportare il tasso di inflazione al 2% e dare fiato all’economia da parte della Bce con l’acquisto di titoli per oltre 713 miliardi di euro, in particolare del settore pubblico (quasi 600 miliardi di euro) non ha sortito gli effetti sperati. 

I risultati del “Quantitative easing” (Qe) sono stati deludenti specie se si considera che, nell’ultimo anno, il livello medio dei prezzi nell’Area dell’euro è cresciuto di appena lo 0,1% mentre i prestiti alle società non finanziarie europee sono scesi di 0,7 punti percentuali. Anche in Germania e in Francia, dove le previsioni di crescita economica per il biennio 2016-2017 sono più favorevoli che in Italia e dove i prestiti alle società non finanziarie sono aumentati negli ultimi 12 mesi, l’inflazione è prossima allo zero (+0,2% per i consumatori tedeschi e +0,1% per quelli francesi). 

Alcuni paesi sono in piena deflazione: valutando l’andamento dell’indice medio dei prezzi al consumo HICP negli ultimi 12 mesi (febbraio 2015-gennaio 2016) si evince come, rispetto allo stesso periodo di un anno prima, i prezzi siano scesi dello 0,5% in Spagna e in Lituania, dello 0,8% in Slovenia, dello 0,4% in Slovacchia e dello 0,1% in Finlandia. Nessun paese dell’Area Euro presenta un’inflazione superiore all’1% (il tasso di crescita dei prezzi più elevato si trova in Austria, +0,9%) e l’obiettivo del 2% rimane un miraggio.           

In questo contesto, l’Italia non brilla: sebbene la Bce abbia acquistato più di 87 miliardi di titoli di stato italiani (dati al 31 gennaio 2016, pari al 16% del totale), con riferimento agli ultimi 12 mesi,  l’inflazione è salita di appena lo 0,2%, mentre i prestiti alle società non finanziarie (cioè alle imprese) sono scesi del 2,3% (pari a una contrazione di 15 miliardi di euro) . 

«L’acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi dell’Euro – precisa il coordinatore dell’Ufficio studi degli artigiani mestrini, Paolo Zabeo – ha contribuito a garantire una certa stabilità finanziaria ma è evidente come questa grossa iniezione di liquidità non stia raggiungendo i risultati sperati tant’è che l’inflazione è ferma, i prestiti alle imprese non ripartono e la crescita economica non trova lo slancio che servirebbe, creando preoccupazione negli operatori e riducendo la fiducia delle imprese. Insomma, il bazooka di Draghi non ha sortito gli effetti sperati. Una quota rilevante di questi 87 miliardi di euro sono finiti alle nostre banche che, però, hanno preferito trattenerseli, aumentando così il livello di patrimonializzazione come richiesto dalla Bce, anziché impiegarli nell’economia reale».  

Il credito alle imprese stenta a ripartire nonostante la domanda di finanziamenti da parte delle aziende registrata nel 2015 risulti in aumento (+4,5% rispetto al 2014). I dati relativi agli impieghi totali alle imprese (società non finanziarie e famiglie produttrici) indicano come, dalla fine del 2014 alla fine del 2015, le consistenze siano scese ancora di quasi 15 miliardi di euro (-1,6%) con saggi più negativi in Lazio (-4,6%), in Veneto (-3,4%), in Calabria (-3,3%) e in Basilicata (-3,0%). Le imprese italiane sono ancora nella morsa del taglio del credito, anche se cominciano ad intravedersi alcuni cambi di tendenza: in Campania (+0,2%), Abruzzo (0,5%), Trentino Alto Adige (+2,1%), Sardegna (+2,9%) e Friuli Venezia Giulia (+3,5%) gli impieghi alle imprese sono cresciuti tra il 2014 e il 2015.     

Sulla situazione davvero poco rosea, interviene anche il segretario dell’Associazione artigiani di Mestre, Renato Mason, secondo il quale «le regole si stanno assestando sempre più in alto. Prima l’Europa chiedeva un patrimonio dell’8 per cento degli impieghi; ora bisogna avere il 10 per cento circa. In altre parole, la banca per prestare 100 milioni deve avere un patrimonio di oltre 10. L’asticella che varia nel tempo per gli istituti di credito è un problema. Infatti, dura da un anno la corsa per adeguarsi alle nuove regole europee, applicate con rigidità e nel periodo peggiore, ovvero nel bel mezzo di una crisi. Adesso, ad esempio, il Governo Renzi ha deciso che le popolari si debbano trasformare in società per azioni. Per far ciò – continua Mason – Veneto Banca deve trovare un miliardo di euro sul mercato per ricapitalizzare e la Popolare di Vicenza un miliardo e mezzo. Tutto ciò mentre la raccolta dei risparmi accusa una flessione dell’8% per l’istituto di Montebelluna e del 23% per quello di Vicenza e il credito deteriorato tocca il 20% per la prima e il 21% per la seconda. Insomma, tra l’innalzamento del livello  patrimoniale, l’aumento di capitale e la quotazione in borsa, il valore delle due banche si è ridotto a tal punto che con uno sforzo economico contenuto si potranno acquistare entrambe».

Da sottolineare anche a giorni è attesa la lettera di richiamo all’Italia da parte dell’Unione europea per la situazione dei conti pubblici. Da indiscrezioni pare che una prima bozza della missiva indirizzata a Renzi contenesse toni decisamente ultimativi, edulcorati a seguito di pressioni diplomatiche. Comunque sia, Renzi deve convincersi che o è in grado di guarire il malato Italia, o è meglio che torni ad occuparsi delle attività di famiglia. Illudersi di conquistare il consenso popolare elargendo mance elettorali a destra e a manca serve solo ad ingigantire un debito pubblico già a livelli mostruosi. Serve che lui agisca alla fonte, tagliando la spesa improduttiva (che è ancora tanta, ma che frutta tanti voti clientelari alla sua maggioranza) e trasformando parte del patrimonio pubblico in quote di fondo sovrano da portare sul mercato per tagliare consistentemente la quota di debito pubblico del Paese.