Il nuovo Dpcm che stabilisce le chiusure a macchia di leopardo dei vari territori italiani sulla base dell’andamento dei contagi pandemici da Covid-19 apre lo scenario di come garantire equi e concreti indennizzi a tutte le attività coinvolte che si vedranno parzialmente o totalmente penalizzate dalla chiusura imposta per motivi sanitari che il decreto “Ristori” non ha affatto affrontato.
«La prima versione del decreto “Ristori” ha buttato il sasso contro la vetrata, rompendola, per vedere l’effetto che fa. E l’effetto non è assolutamente stato quello che si aspettavano Conte, Gualtieri & C. – commenta Massimo Bitonci, il deputato e commercialista padovano della Lega, già sottosegretario all’Economia e Finanze nel Conte I -. La reazione del mondo economico è stata corale, perché il criterio usato dei ristori solo ad un ristretto numero di categorie individuate con i codici Ateco non fotografa sufficientemente tutti i settori economici nella loro complessità».
Onorevole Bitonci, perché lei contesta l’utilizzo dei codici Ateco?
«Perché quello del decreto “Ristori” è un sistema di schematizzazione troppo rigido, che non si adegua alla complessità dell’economia. Per esempio, se si obbliga la chiusura per motivi sanitari di un ristorante e solo per questo si prevede l’erogazione di un ristoro, tutta la catena che ha a che fare con il ristorante ne risente per il mancato fatturato, ma senza percepire alcun ristoro. Sempre stando all’esempio del ristorante, se questo chiude non ha più bisogno del servizio di lavanderia delle tovaglie, della ditta che effettua le pulizie nel locale, dei vari fornitori dei prodotti alimentari, dell’agenzia pubblicitaria che ne cura la promozione al pubblico, del sistema informativo che non vende gli spazi pubblicitari per promuovere il ristorante, del fotografo o del cineoperatore che realizza lo spot. Tutti costoro, nell’attuale formulazione del decreto “Ristori” sono privi di qualsiasi copertura. E l’esempio del ristorante vale per tutti gli altri settori coinvolti nelle chiusure o riduzione di apertura obbligatorie».
Onorevole Bitonci, come sarebbe corretto operare per evitare di lasciare scoperte molte attività, spesso a rischio di chiusura definitiva?
«Come accade in Italia dall’avvento al potere di una maggioranza composta dalle quattro sinistre, il governo BisConte ha avuto due occhi di riguardo per i “garantiti”, ovvero dipendenti pubblici, cui è assicurato il posto di lavoro e lo stipendio pieno a prescindere dall’effettiva prestazione, e i lavoratori dipendenti, cui è garantito il posto di lavoro con il divieto di licenziare e gran parte dello stipendio attraverso la cassa integrazione che apre allo svolgimento dei lavori in nero per mancanza di adeguati controlli. Idem per i nullafacenti percettori del reddito di cittadinanza, cui si erogano soldi in cambio di nulla. Per tutti costoro, il governo BisConte è stato più che munifico. Diverso andazzo per tutti coloro che hanno, agli occhi della maggioranza di governo, la colpa di intraprendere e lavorare in proprio, anche se sono coloro che con i propri guadagni pagano le tasse per mantenere gran parte dei garantiti. Per tutti costoro, è arrivata qualche piccola erogazione a fondo perduto e per le Partite Iva anche l’erogazione di una mancetta di 2.200 euro divisa in tre rate. Davvero troppo poco. Per tutte le attività è necessario predisporre un’erogazione una tantum a fondo perduto a tutti i soggetti che hanno già percepito le precedenti erogazioni di almeno 4-5.000 euro, oltre all’indennizzo di almeno il 70/80% di tutte le spese fisse documentabili sostenute durante il periodo di emergenza pandemica».
Difficile che il governo BisConte accetti una soluzione del genere.
«Mi pare invece un provvedimento di elementare buon senso. Se non vogliamo che al termine di questo sciagurato tempo il Paese si ritrovi privo di una struttura produttiva legata al mondo delle Pmi e delle professioni, che sono strategiche per l’economia nazionale, è necessario intervenire a loro sostegno, superando l’utilizzo dei codici Ateco per un provvedimento basato su due pilastri: l’erogazione di un contributo fisso a fondo perduto uguale per tutte le Partite Iva e Pmi e uno variabile sulla base dei costi fissi dimostrabili sostenuti durante il periodo dell’emergenza. Questo è quanto accade negli altri paesi europei colpiti da Coronavirus che stanno ben più attenti dell’Italia a tutelare il proprio sistema produttivo con adeguati indennizzi».
Lei insiste con la parola “indennizzi”, mentre dal governo BisConte si utilizza il termine “ristori”. Che differenza c’è?
«Una differenza sostanziale. Con la parola “indennizzo” chi causa un danno ad un terzo – in questo caso il governo con la decisione di chiudere le attività economiche per un determinato periodo di tempo per l’emergenza pandemica – è tenuto a coprirne per l’intero l’ammontare del danno causato patito non per propria volontà. Con la parola “ristoro”, invece, siamo nella situazione in cui chi ha causato il danno ad un terzo si arroga il diritto di decidere unilateralmente le modalità di risarcimento, che possono anche essere meramente simboliche, come per altro è fin qui avvenuto. Quindi, se l’Italia vuole essere un Paese serio, al mondo delle Pmi, delle Partite Iva e delle Professioni si applichino gli indennizzi e non i ristori e la proposta che fa la Lega va proprio in questa direzione».
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