Francamente, era difficile pensare ad un decreto concepito frettolosamente, costruito male e comunicato peggio come il decreto “Ristori” appena pubblicato sulla Gazzetta ufficiale che stanzia poco più di 5,4 miliardi di euro per ristorare le attività costrette alla chiusura per limitare la diffusione del Coronavirus che, come unico risultato, oltre a danneggiare ulteriormente una situazione economica già molto pesante, ha fatto imbestialire tutte le categorie con una serie di plateali manifestazioni pubbliche.
Cna denuncia come «oltre 100.000 imprese del settore della ristorazione sono inspiegabilmente escluse dagli indennizzi previsti con il decreto “Ristori”. Per quanto riguarda la ristorazione risultano escluse tutte le imprese che svolgono l’attività senza somministrazione, in pratica tutto l’artigianato della ristorazione: pizzerie a taglio, gastronomie, rosticcerie, piadinerie, gelaterie non sono ammesse ai contributi nonostante stiano accusando da tempo vistosi cali di fatturato».
CNA ribadisce che «tali attività devono essere assolutamente comprese nel comparto della ristorazione quando si parla di indennizzi, anche perché sono sempre inserite nei provvedimenti e nelle disposizioni in materia di obblighi e norme di sicurezza».
Il problema più grande è connesso con il perimetro delle aziende che avranno accesso ai ristori: «è necessario ampliare l’ambito di intervento alle attività delle filiere che sono le più colpite dalla pandemia e ulteriormente penalizzate dalle restrizioni per contenere il virus – afferma Cna -. Si tratta di oltre 100.000 attività, che comprende, ad esempio, bus turistici, tintolavenderie, fotografi, artigiani addetti alla manutenzione, professionisti e partite Iva vari, che non possono essere ignorate».
Anche perché, secondo Cna, «per ogni azienda chiusa o che può esercitare solo con forti limitazioni, ci sono almeno altre tre aziende che subiscono un danno indiretto. E alla fine della crisi, molte aziende dell’indotto potrebbero essere già state costrette alla chiusura».
Sulla stessa linea Confartigianato che dalla chiusura di bar e ristoranti lamenta il danno che si viene a creare lungo la filiera dei produttori alimentari che dovranno gestire un minor giro d’affari derivante dalle minori vendite la catena della ristorazione. Anche di queste aziende, il decreto “Ristori” non fa il minimo accenno.
Ad essere pesantemente colpito dalla nuova recrudescenza – prevedibile, ma non adeguatamente governata dalla maggioranza del BisConte – anche il mondo delle professioni, sempre trascurato se non dimenticato nonostante annoveri oltre 5 milioni di lavoratori spesso ad alto contenuto intellettuale, ritenuti da una vergognosa maggioranza di sinistra evasori a prescindere, dimenticandosi che sui loro redditi lordi professionali scatta “ab origine” la tagliola della ritenuta d’acconto del 20% quando almeno il 50% dei contribuenti italiani a reddito fisso questo livello di tassazione non lo vede affatto, essendone ben sotto o addirittura esente.
Anche parlare di “ristori” è semplicemente pleonastico, in quanto la parola stessa è utilizzata fuori contesto, riferendosi piuttosto ad una realtà legata all’alimentazione. Meglio sarebbe parlare di “indennizzi” come fa una legge dello Stato italiano del 1865, mai abrogata, ma il problema che insorge è che la parola “indennizzo” nasconde una non trascurabile conseguenza giuridica: la necessità di risarcire per l’intero il danno subito quando questo è derivante da una pubblica utilità. La conseguenza è netta: nel caso degli indennizzi, lo Stato sarebbe costretto a risarcire per l’intero i privati dei danni da loro subiti – facilmente calcolabili guardando l’ultimo bilancio finanziario chiuso dalle varie aziende -, mentre con i ristori il “principe” Giuseppi se la può cavare con una misera, parziale, inadeguata mancetta.
«Stiamo vivendo una situazione che se non fosse tragica sarebbe pure comica – afferma il commercialista padovano deputato ed ex sottosegretario al Mise, Massimo Bitonci -. Il governo BisConte non sa più che pesci pigliare, tanto da spacciare per soldi veri i 5,4 miliardi annunciati dal decreto “Ristori”, che altro non sono che rimanenze di impegni di spesa già deliberati dai precedenti decreti emergenziali che hanno stanziato 100 miliardi di ulteriore spesa a debito. Di fatto, non si tratta di nuove risorse, ma di soldi già promessi tra marzo e aprile, ma mai effettivamente giunti a destinazione per le aziende che ne avevano diritto».
Bitonci allarga la critica: «come ha fatto notare il mio collega commercialista ed ex viceministro Enrico Zanetti, il governo BisContinua indefesso nel gioco delle tre carte, in una colossale ammuina buona sola per gettare fumo negli occhi di quella parte di lavoratori autonomi non garantiti da stipendio pubblico erogato a prescindere o dalla cassa integrazione. Si parla di indennizzi dal 100% al 400% a fondo perduto, ma peccato che queste percentuali non si riferiscano al calo di fatturato subito ad aprile scorso, ma di un importo tra il 10% e il 20% del calo di fatturato subito ad aprile. Come ha evidenziato Zanetti, al netto del fumo sollevato ad arte dal governo, l’arrosto di fatto si riduce dal 10% al 40%, mica dal 100% al 400%».
Come se ne esce? «Detto che gran parte dei 100 miliardi di extradebito sono serviti solo a pagare mancette elettorali alla propria base di consenso, se non si vuole fare affondare definitivamente l’economia nazionale serve iniettare subito risorse finanziare fresche nell’economia reale – prosegue Bitonci -. Basta guardare a quanto sta facendo in Germania il governo Merkel, che ha già deliberato di erogare automaticamente nei conti correnti delle aziende e lavoratori autonomi il 75% del mancato fatturato del periodo di chiusura obbligatoria, dato che fa il paio con l’erogazione immeditata nei conti correnti di tutte le aziende e lavoratori autonomi di 15.000 euro la scorsa primavera. Una bella differenza rispetto all’Italia, dove il mondo delle professioni si è dovuto accontentare della miseria delle due elemosine da 600 euro cadauna e una da 1.000 euro. Per non parlare degli indennizzi a fondo perduto, molti ancora da arrivare a destinazione. Non per niente, dalla prima pandemia, l’economia tedesca è uscita meglio dell’Italia, nonostante avesse avuto meno casi del Belpaese».
Non è da meravigliarsi se il presidente della provincia di Bolzano, Arno Kompatscher, nel fare marcia indietro rispetto alla posizione di solo pochi giorni fa di tenere aperto bar, ristoranti, teatri, ecc. per un arco temporale più ampio rispetto a quello imposto dal Dpcm del governo italiano, abbia affermato di riferirsi all’esempio tedesco piuttosto che a quello italiano. Difficile dargli torto: meglio copiare dai migliori che dai peggiori.
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