L’autonomia rafforzata torna ad affacciarsi sulla scena della politica italiana e il rischio sempre più probabile è che prima delle elezioni europee non si arrivi ad un nulla di fatto, aumentando così l’insoddisfazione degli elettori del Nord Italia, già messi a dura prova da infrastrutture che non si realizzano, dalle troppe tasse che non si tagliano e dalla crisi economica che marcia a passo svelto.
Il ministro per gli Affari regionali, la leghista vicentina Erika Stefani, a Genova per ricevere la richiesta ufficiale, da parte del presidente della regione Liguria Giovanni Toti, dell’avvio del percorso di autonomia, ha preso l’occasione per ribadire che, nonostante la questione «non si possa risolvere nello spazio di mezz’ora», la tempistica in ogni caso deve essere «il più celere possibile».
Pronta la replica degli alfieri della “frenatura”: il pentastellato ministro dei Rapporti con il Parlamento, il trentino Riccardo Fraccaro, ha ribadito l’importanza «che il Parlamento abbia la possibilità di esprimere la propria posizione»; poi «il governo e la regione ne prenderanno atto e troveranno un’intesa», ha osservato, smussando in parte la richiesta di un pieno e completo dibattito da parte delle Camere avanzata dal suo sodale di partito (e presidente della Camere) Fico.
Da par suo, Stefani ritiene «ovvio» il fatto che «c’è una dialettica all’interno del governo su quelle che sono richieste delle Regioni sull’impianto generale», ma ha tenuto altresì a ribadire come «vi è un contratto di governo che è molto chiaro». Del resto, ha sottolineato Stefani, «la richiesta di autonomia delle regioni ubbidisce veramente a quelli che sono dei valori principe del contenuto della norma costituzionale». Anche perché, ha ribadito, l’autonomia «è una sfida di efficientamento della spesa perché il sistema di finanziamento dell’autonomia passa attraverso il superamento del principio del costo storico per arrivare al costo standard e ai fabbisogni standard, sul solco di quella che è la legge sul federalismo fiscale». Una parola tabù per troppe orecchie, tant’è che non sono mancate le puntualizzazioni sul tema.
Ancora Fraccaro, a conclusione di un incontro con il governatore lombardo Attilio Fontana, ha aggiunto che sull’autonomia «la decisione non compete al governo, ma alle Camere e noi rispettiamo la divisione dei poteri. Ci siamo confrontati anche su questo con Fontana e condividiamo l’idea che debba essere il Parlamento ad affrontarlo e siamo sicuri che lo farà nel migliore dei modi, rispettando un referendum che è stato molto significativo». Fraccaro poi butta acqua sul fuoco delle polemiche per quanto riguarda la tempistica: «c’è un’autonomia da fare molto bene perché vogliamo che rispetti e favorisca la volontà espressa dai cittadini con un referendum e che abbia un percorso che rispetti anche il Parlamento», aggiungendo «se l’autonomia aspetta una settimana in più non ci sono problemi, l’importante è che la facciamo bene, rispettando i territori che la chiedono e la coesione nazionale». Problemi che invece ci sono, e tanti, specie per il suo alleato di governo, la Lega che per bocca dello stesso governatore Fontana puntualizza come «si sia trovata la strada dell’accordo Governo-Regioni, quindi il Parlamento non può emendare un accordo che è stato raggiunto da altri» confermando così l’impianto di partenza su cui si è fondato il percorso della concessione di maggiore autonomia alle regioni che la richiedano.
Sull’argomento temporale è intervenuto anche il governatore del Veneto, Luca Zaia: «il problema non sono i 30 giorni in più o in meno. Il problema è fare un bel progetto. L’Autonomia è un treno che è partito, e non potrà deragliare. Su 20 regioni, 17 hanno già avviato il percorso e non approvarlo significa restare fuori dalla storia». E se il Parlamento ci mette bocca, è molto probabile che il progetto di maggiore autonomia venga in qualche modo fatto abortire.
Il rischio per Salvini e la Lega è di presentarsi alle elezioni europee del 26 maggio prossimo con pochi risultati nella saccoccia. Dinanzi ad uno scenario economico sempre più fosco, dove ormai per ammissione di tutti i centri di valutazione dell’efficacia dell’azione economica del governo giallo verde si sottolinea come quanto fin qui fatto sia controproducente agli effetti della crescita, il leader della Lega deve iniziare a spiegare agli elettori come farà a trovare i 23 miliardi necessari ad evitare l’aumento dell’Iva già deciso e puntualmente confermato nella revisione del Def di pochi giorni fa, oltre ai circa 7-8 miliardi di euro da aggiungere ai 2 miliardi già sterilizzati per riequilibrare i conti dello Stato, visto che il deficit atteso per il 2019 si riporta a quel 2,4% ipotizzato già ad ottobre scorso (che i grillini hanno festeggiato con una “balconata” da Palazzo Chigi) salvo trasformarsi nella furbata semantica del 2,04% imposto dai controllori di Bruxelles. Insomma, per la Lega il piatto dei provvedimenti di governo è vuoto e poco vale il successo nella lotta contro l’immigrazione clandestina o l’approvazione di un provvedimento economicamente inutile come “quota 100”, quando ai cittadini ancora prima della fine della primavera (e ad elezioni europee svolte) dovrà essere propinata una manovra economica da cavallo. Sempre che qualcuno non pensi ad un nuovo “me ne frego” e si buchi la soglia del 3% di deficit con tutto quel che ne consegue in termini di destabilizzazione dei conti pubblici, dell’affidabilità del debito Italia e del suo costo di rifinanziamento destinato a crescere con decisione, drenando ulteriori risorse dalla crescita del Paese.
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