Il ministro Andrea Orlando è ormai da oltre tre mesi seduto sulla poltrona di ministro del Lavoro, ma per quanto riguarda la nuova legge previdenziale per la riforma delle pensioni al momento non ha battuto un colpo.
Un paio di mesi fa, ad una precisa domanda sull’argomento previdenziale, Orlando aveva risposto «la riforma delle pensioni verrà affrontata solo in un secondo momento, non prima di aver avviato il lavoro su altre due questioni più importanti, quali la riforma degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive».
Poi successivamente, incalzato da più parti, ha corretto il tiro e durante un “Question Time” alla Camera dei Deputati ha affermato che le due commissioni relative alla classificazione e comparazione della spesa pubblica per finalità previdenziali ed assistenziali la prima ed alla gravosità dei lavori in relazione all’età anagrafica ed alle condizioni ambientali dei lavori la seconda hanno ripreso attivamente a riunirsi dal mese di aprile ed entro giugno porteranno a termine i lavori.
Orlando ha poi continuato affermando che «le proposte di intervento sulle pensioni non possono più essere di carattere sperimentale o transitorio, ma dovranno essere orientate in termini di sostenibilità ed equità e di una prospettiva di lungo periodo. Dovranno cioè avere carattere strutturale» concludendo che, presumibilmente nel mese di giugno, al termine del lavoro imprescindibile di approfondimento fatto dalle commissioni, convocherà le parti sociali per l’inizio delle trattative relative appunto alla nuova legge previdenziale.
Tutte belle parole ma al momento nulla di concreto. Eppure il tempo stringe. Mancano solamente sette mesi alla fine di “quota 100” e al ritorno prepotente della legge Fornero.
È chiaro a tutti che la legge Fornero, che è stata fatta in maniera frettolosa quasi dieci anni fa in un contesto difficilissimo per l’Italia, non è più adeguata alla realtà odierna perché, oltre ai danni provocati agli esodati, si è rivelata essere troppo rigida. Anche alla luce del fatto che il Paese è stato devastato dalla pandemia, che moltissime attività sono state azzerate e che ci vorranno anni per ritornare alla situazione preesistente. Il pericolo non è ancora passato e si contano al momento oltre 125.000 decessi causa pandemia, oltre al fatto che nel solo 2020 l’aspettativa di vita è calata di ben 17 mesi, un’enormità. Tutti questi motivi devono far si che la pensione anticipata deve essere portata a 41 anni per tutti e c’è la necessita di operare una flessibilità in uscita a partire da 62 anni.
Separando la previdenza dall’assistenza – il vero buco nero del sistema di welfare italiano – si potrà finalmente dimostrare all’Europa che la spesa per le pensioni in Italia non è al 17% del Pil, ma bensì al 12%, perfettamente in linea con gli altri paesi europei e pure inferiore a quella di Germania e Francia.
Bisognerà poi fare qualcosa per i giovani che sono i più penalizzati da questa situazione. I giovani non devono scappare all’estero perché in Italia non trovano lavoro. Questi giovani che cominciano, se va bene, a lavorare a 30-35 anni, mai potranno arrivare a 41 anni di contributi: per loro deve essere istituito un fondo pubblico per coprire i troppi buchi contributivi che avranno. I giovani devono iniziare a rimettere su famiglia e fare figli perché su di loro si basa il futuro della nazione.
Quindi il ministro Orlando deve assolutamente accelerare su questo argomento che interessa milioni di italiani e non dedicarsi esclusivamente agli ammortizzatori sociali delle politiche attive del lavoro, dove tra l’altro ha inciampato sulla norma inserita alla chetichella del blocco dei licenziabmenti prorogato fino al 31 agosto 2021 scontentando sia i sindacati che lo volevano portato fino al 31 ottobre sia la Confindustria che lo voleva mantenere fino al 30 Giugno 2021. “Maneggio” poi sventato dal premier Draghi, che impostol’azzeramento e il ripristino degli accordi precedenti.
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