Pil Italia 2024: Bankitalia lo stima allo 0,8%, ma rialza stime 2025-26

Pesa incertezza. Domanda debole imprese, riparte credito famiglie.

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Il Pil Italia 2024 deve dire addio ai sogni di gloria vaticinati dal ministro all’Economia, Giancarlo Giorgetti, visto che dopo la revisione al ribasso effettuata dall’Istat per il primo semestre 2024, pure Bankitalia vira al ribasso, stimando per l’anno in corso una crescita dello 0,8%, più bassa dell’atteso 1%, ma pur sempre migliore della Francia e, soprattutto, della Germania, in recessione per il secondo anno consecutivo (-0,2% nel 2024 dopo il -0,3% del 2023).

Ad indorare la pillola amara per il governo Meloni c’è la previsione più rosea per gli anni 2025 e 2026, dove il calo dei tassi d’interesse e la serie di misure espansive programmate dal governo contenute nel Piano strutturale di bilancio (Psb) dovrebbero far salire, un po’ più delle attese il Pil Italia con una crescita complessiva, nel biennio, del 2,2%.

Il bollettino economico della Banca d’Italia modifica le precedenti previsioni di giugno per i prossimi anni che scontano però un monito non formale, per «un’elevata incertezza» a causa delle turbolenze geopolitiche, dalla guerra in Ucraina al conflitto in Medioriente per non parlare della «debolezza» dell’economia cinese.

Rispetto a quelle che erano le stime dell’esecutivo per il Pil Italia 2024, pesa la correzione operata dall’Istat nei giorni scorsi che ha decurtato il Pil Italia 2024 dello 0,2%, ma per il 2025-2026, sostanzialmente, le previsioni dell’Istat e di Bankitalia collimano in un +2,2% complessivo che dovrebbe segnare una ripresa rispetto al quadro attuale.

Molti indicatori dell’economia italiana, si legge nel Bollettino di Bankitalia che contiene anche le proiezioni macroeconomiche per il triennio, segnalano uno stancamento o una «crescita moderata»: i consumi delle famiglie «stagnanti» e che dovrebbero accelerare nei prossimi anni grazie al raffreddamento dell’inflazione, il mercato del lavoro che mostra «segnali di rallentamento», la domanda di credito delle imprese che resta debole specie per gli investimenti, nonostante i primi segnali di un calo dei tassi sia già avvenuto dalla primavera.

Solo le famiglie, dove i tassi sui mutui espressi dal mercato come l’Irs si sono mossi per anticipare i tagli Bce da diverse settimane, hanno mostrato il primo segnale di vitalità, sebbene modesta, dall’inizio del 2023. Anche nel tiraggio misurato degli esperti di Bankitalia si coglie una situazione non brillante per le aziende e il mondo delle imprese: il calo dei prestiti «è stato più accentuato per le aziende dei servizi e nel comparto dei finanziamenti a medio e a lungo termine, generalmente associati a esigenze di investimento».

Un brutto segnale questo per i prossimi mesi visto che l’effetto si manifesta con un ritardo temporale. Non a caso, si legge ancora nel testo «gli investimenti continueranno a risentire di costi di finanziamento ancora elevati e del ridimensionamento degli incentivi legati al settore edilizio, gli effetti del quale saranno tuttavia mitigati dalle misure di stimolo previste dal Pnrr». Sempre che la capacità di spesa, al momento ridotta, acceleri.

Luci e ombre sul fronte del lavoro: «il numero di occupati ha continuato a salire, ma le ore lavorate sono diminuite, in special modo nell’industria in senso stretto». E così scenderà il tasso di disoccupazione, al 7,7% lo scorso anno, scenderà «al 6,7% nel 2024 e al 6,3% in media nel biennio successivo» con «l’occupazione che continuerà a crescere a ritmi inferiori a quelli osservati nel 2023».

Infine le retribuzioni che costituiscono il tasto dolente dell’economia delle famiglie italiane. Sono stati archiviati i timori dei banchieri centrali per l’avvio di una spirale prezzi-salari che, a conti fatti, non c’è stata: l’inflazione chiuderà al’1,1% in Italia e sarà all’1,6% nel 2025, ben sotto quindi alle soglie Bce. Gli stipendi continueranno a crescere sebbene con differenze fra settore e settore. Saranno sospinti dagli accordi siglati di recente, ma anche così, è la constatazione degli esperti, in termini reali rimangono comunque in media inferiori dell’8% circa rispetto ai livelli del 2021.

Anche da parte del mondo sindacale servirebbe una presa d’atto della necessità di superare il concetto di retribuzione universale uguale lungo tutta la Penisola, per attuare retribuzioni territoriali che tengano conto dell’effettivo costo della vita locale, con retribuzioni maggiori dove questo è più alto e minori dove è più basso, dando conseguentemente a tutti lo stesso potere d’acquisto che ora risulta falsato a danno dei lavoratori che operano nelle realtà territoriali dove il costo della vita è più alto anche del 30%.

 

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