Crisi economica, dal suo inizio (gennaio 2008) perse 85.000 imprese artigiane e commerciali

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denaro euro biglietti monete fotolia 1Ecatombe di piccole e medie imprese. E altre potrebbero aggiungersene se la congiuntura dovesse peggiorare

La crisi economica iniziata dal gennaio 2008 non ha risparmiato nessuno. Oltre alla disoccupazione crescente, anche il settore del lavoro autonomo è stato colpito duramente, con la chiusura di circa 85.500 attività imprenditoriali (spesso costituite da artigiani e commercianti). I numeri sono stati elaborati dalla Cgia di Mestre su dati Infocamere-Movimprese. Chiusure che troppo spesso non fanno notizia, se non nei casi di qualche evento drammatico, come il suicidio di qualche imprenditore.

Se all’inizio della crisi commercianti ed artigiani contavano complessivamente quasi 2.369.000 aziende, cinque anni dopo si sono attestati poco sopra i 2.283.000 unità. Tra gli artigiani, in particolar modo, si è registrata una vera e propria ecatombe: tra le 85.500 imprese che non ci sono più, ben 77.670 (pari al 90,9%) sono appartengono al settore. Nell’ultimo trimestre la moria è continuata ad aumentare: tra il 31 dicembre 2012 e il 31 marzo 2013, il bilancio segna 27.800 imprese in meno.

“I lavoratori autonomi – dice Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre – una volta chiusa l’attività si trovano per strada. A differenza dei lavoratori dipendenti, gli artigiani e i commercianti non possono usufruire di nessun ammortizzatore sociale. La cassa integrazione – sia essa in deroga, ordinaria o straordinaria – piuttosto che la mobilità sono istituti dati in esclusiva ai lavoratori dipendenti. Per chi possiede una partita Iva, invece, una volta chiusa l’attività si apre da subito l’inferno della disoccupazione”. Per non dire dei debiti da pagare.

Nonostante i dati della nati-mortalità riferita al totale delle aziende presenti in Italia continui essere positivo (al 31-12-2012 il saldo è stato pari a +18.911), il problema rimane la disoccupazione che, purtroppo, continua a crescere. Ciò vuol dire che a chiudere sono le realtà imprenditoriali strutturate e con dipendenti, mentre ad aprire sono, in buona parte, micro aziende costituite quasi esclusivamente dal titolare.

“La contrazione del numero delle piccole attività artigianali/commerciali – conclude Bortolussi – va ricercata anche nella forte contrazione registrata in questi ultimi anni dai consumi delle famiglie. Queste attività imprenditoriali vivono quasi esclusivamente della domanda interna. Se quest’ultima crolla molte attività sono destinate alla chiusura. Per questo auspichiamo che il Governo scongiuri l’aumento dell’Iva previsto dal 1 luglio. Se non dovesse essere così, le saracinesche che nei prossimi anni resteranno abbassate per sempre continueranno ad aumentare in maniera preoccupante”. Già: i dati del Ministero dell’economia dimostrano senz’ombra di dubbio la portata recessiva dell’aumento dell’Iva. Nei 12 mesi precedenti all’aumento dal 20 al 21% dell’Iva, il gettito della tassazione sugli scambi interni era stato di 100 miliardi e 387 milioni di euro. Dall’aumento, il Governo s’aspettava un maggior gettito di 4 miliardi di euro. Nei 12 mesi successivi all’aumento al 21%, il gettito Iva è stato di 99 miliardi e 337 milioni di euro: invece di 4 miliardi di gettito in più. L’incasso è stato inferiore di un miliardo di euro. E da allora ad oggi, la caduta di gettito si è ampliata e crescerà ancora di più nel caso del passaggio dal 21 al 22%, creando un bel buco nei conti del bilancio dello Stato. Tanto che oggi spira un venticello che vorrebbe non solo bloccare l’aumento dell’Iva, ma pure cancellare l’aumento precedente, per tornare all’aliquota del 20%: con tutta probabilità ne guadagnerebbe il gettito fiscale, oltre che la capacità di spesa delle famiglie italiane.