Come in molti paesi d’Europa, anche in Italia le differenze salariali a livello territoriale sono importanti, anche grazie all’applicazione dei contratti di secondo livello, ancora poco diffusi.
Secondo l’ufficio studi della Cgia, nel 2021, la retribuzione media lorda annua dei lavoratori dipendenti italiani occupati nel settore privato nella Città Metropolitana di Milano era di 31.202 euro contro i 16.349 euro a Palermo, a fronte di una media nazionale di 21.868 euro. Praticamente nella capitale economica del Paese un ipotetico lavoratore dipendente medio due anni fa percepiva il 90% in più di un collega occupato nelcapoluogo regionale siciliano, con una differenza ancora maggiore se il confronto viene fatto con la provincia calabrese di Vibo Valentia, ultima nel Paese per retribuzione media lorda annua (11.823 euro), dove il salariodel dipendente meneghino era addirittura superiore del 164%.
Questi livelli retributivi variabili lungo la Penisola evidenziano gli squilibri presenti tra Nord e Sud, ma anche tra le aree urbane e quelle rurali. Questione che le parti sociali hanno tentato di risolvere, dopo l’abolizione delle cosiddette gabbie salariali avvenuta nei primi anni ’70 del secolo scorso, attraverso l’impiego del contratto collettivo nazionale del lavoro (CCNL). L’applicazione, però, ha prodotto solo in parte gli effetti sperati.
Le disuguaglianze salariali tra le ripartizioni geografiche sono rimaste perché nel settore privato le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società finanziarie, assicurative e bancarie che – tendenzialmente riconoscono ai propri dipendenti stipendi molto più elevati della media – sono ubicate prevalentemente nelle aree metropolitane del Nord. Le tipologie di aziende appena richiamate, infatti, dispongono di una quota di personale con qualifiche professionali sul totale molto elevata (manager, dirigenti, quadri, tecnici, etc.), con livelli di istruzione alti a cui va corrisposto uno stipendio importante.
Infine, non va nemmeno scordato che il lavoro irregolare è diffuso soprattutto nel Mezzogiorno e da sempre questa piaga sociale ed economica provoca un abbassamento dei salari contrattualizzati dei settori (agricoltura, servizi alla persona, commercio, etc.), ubicati nelle aree interessate da questo fenomeno.
Se invece di comparare il dato medio tra aree geografiche diverse lo si fa tra lavoratori dello stesso settore, le differenze territoriali si riducono e mediamente sono addirittura più contenute di quelle presenti in altri paesi europei. Le disuguaglianze salariali a livello geografico sono importanti, ma, grazie a un preponderante ricorso alla contrattazione centralizzata, ci sono differenziali più contenuti rispetto agli altri Paesi.
Per contro, la scarsa diffusione in Italia della contrattazione decentrata – istituto, ad esempio, molto diffuso in Germania – non consente ai salari reali di rimanere agganciati all’andamento dell’inflazione, al costo delle abitazioni e ai livelli di produttività locale, facendo scontare ai lavoratori italiani anche dei gap retributivi medi molto importanti con gli altri paesi.
Come ha segnalato anche il CNEL, il problema dei lavoratori poveri non pare riconducibile ai minimi tabellari troppo bassi, ma al fatto che durante l’anno queste persone lavorano un numero di giornate molto contenuto. Più che a istituire un minimo salariale per legge, come propongono alcune forze politiche, andrebbe contrastato l’abuso di alcuni contratti a tempo ridotto. Altresì, dall’Ufficio studi della CGIA fanno sapere che per innalzaregli stipendi dei lavoratori dipendenti, in particolar modo di quelli con qualifiche professionali minori, bisognerebbe continuare nel taglio dell’Irpef e diffondere maggiormente la contrattazione decentrata.
Avendo una delle percentuali relative al numero di lavoratori coperto dalla contrattazione collettiva nazionaletra le più alte a livello europeo (95% del totale dei lavoratori dipendenti), si dovrebbe “spingere” per diffondereulteriormente anche la contrattazione di secondo livello, premiando, in particolar modo, la decontribuzione e il raggiungimento di obiettivi di produttività, anche ricorrendo ad accordi diretti tra gli imprenditori e i propri dipendenti, dando così una risposta soprattutto alle maestranze del Nord e in particolar modo delle aree piùurbanizzate del Paese che, a seguito del boom dell’inflazione e del caro casa, in questi ultimi due anni hanno subito, molto più degli altri, una spaventosa perdita del potere d’acquisto.
La contrattazione di secondo livello vede coinvolti solo il 20% dei lavoratori, pari a 3,3 milioni di persone, con solo 10.568 contratti attivi di secondo livello, di cui 9.532 di natura aziendale e 1.036 territoriali, registrati presso il ministero del Lavoro. Il 43% dei contratti di secondo livello era stato sottoscritto nelle realtà aziendalicon meno di 50 addetti, il 41% in quelle con più di 100 e il 16% in quelle con un numero di dipendenticompreso tra 50 e 99. Dei 10.568 contratti attivi, il 72% è stato sottoscritto al Nord, il 18% al Centro e il 10%al Sud. Lombardia (3.218), Emilia Romagna (1.362) e Veneto (1.081) sono le regioni che presentano il numero più elevato.
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