“Monica Vitti. Recitare è un gioco”

0
589
libro monic avitti
Chiara Ricci racconta in un libro edito da AG Book Publishing la vita artistica dell’attrice romana

 

Di Giovanni Greto

 

libro monic avittiMonica Vitti (Roma, 3 novembre 1931), attrice cinematografica e teatrale, apprezzata ed amata da critica e pubblico, da molti anni è affetta da una malattia simile all’Alzheimer, che, tra le altre conseguenze, ha anche quella della perdita della memoria.

In un momento di lucidità, ha deciso di ritirarsi per non vivere sotto gli occhi di tutti la sua sofferenza. La sua ultima apparizione pubblica risale al marzo del 2002, alla prima di “Notre Dame de Paris”. Chiara Ricci, scrittrice, critica teatrale e cinematografica, anche lei nata a Roma, con questo testo ha inaugurato la nuova collana di cinema della casa editrice romana “AG Book Publishing. 

Personalmente ho avuto modo di parlare con alcuni studenti universitari, ai quali il nome di Monica Vitti risultava totalmente sconosciuto, nonostante una frequentazione intensa del Web. “Recitare è un gioco”, servirà dunque a far conoscere e a non dimenticare una grande attrice, passata dal teatro, al cinema della incomunicabilità di Antonioni, a quello comico della commedia all’italiana. Il libro è stato presentato anche a Venezia nella casa che ha visto nascere Carlo Goldoni, uno dei più celebri scrittori italiani di commedie. 

Lasciando al lettore il gusto di scoprire pagina dopo pagina le vicende umane ed artistiche dell’attrice, attraverso una narrazione cronologica suddivisa per settori di lavoro – il teatro e la televisione, cui è dedicato uno spazio minore e il cinema – vale la pena di soffermarsi sulla sintetica ma amorevole introduzione, nella quale mediante un collage di dichiarazioni, l’autrice, partendo dalla domanda “Chi è Monica Vitti?”, riesce a tratteggiare la fragilità della persona, accanto alla forza dell’artista. 

Terza ed unica figlia di una famiglia borghese, Monica ha un rapporto conflittuale con la madre, che si vergognava, sono parole sue “di avere in casa una figlia con un seno piccolo, piccolo, piena di lenticchie (lentiggini), secca, secca e troppo alta”. Apriti cielo, poi, quando Monica insiste nel voler fare l’attrice. La madre la considera una persona poco seria, finché vista la tenacia, dovrà arrendersi e acconsentire di compilare un’autorizzazione scritta per la figlia, all’epoca ancora minorenne, da allegare alla domanda di ammissione all’Accademia d’arte drammatica “Silvio D’amico”, per l’anno accademico 1949-1950. Passando alla sfera sentimentale, Monica, scrive la Ricci, “ha necessità di essere rassicurata, sostenuta, di amare ed essere amata” e cita una sua dichiarazione tratta dalla trasmissione televisiva “III B facciamo l’appello”, andata in onda il 20 giugno 1971 : “Ci vorrebbe un uomo per tutta la vita. Certo, è difficile trovarlo, ma, se ci riesci, non hai bisogno d’altro”. Quanto all’amore, afferma l’attrice nel 1998, “è un’assoluta necessità. Non amare dev’essere orribile. Deve essere brutto come la morte. Perché non amare vuol dire non palpitare, non sentire dei sentimenti. È come non produrre. L’amore produce. L’amore ti ispira tante altre cose. Non è solo per un uomo. È l’amore in sé che è importante”. 

Un capitolo significativo, bene analizzato nel libro, è quello che approfondisce il rapporto professionale e sentimentale con Michelangelo Antonioni. Dopo aver doppiato Dorian Gray ne “Il grido”, Monica sarà la protagonista in quattro pellicole, all’avanguardia per quei tempi, di certo fondamentali nella storia del cinema: “L’avventura”(1960); “La Notte”(1961); “L’eclisse”(1962); “Deserto Rosso”(1964). Accanto al successo, c’è però il pericolo che l’attrice venga circoscritta in quello che all’epoca veniva definito  il “cinema dell’incomunicabilità”. Ecco che allora, a partire dal 1967, Monica diventerà la più amata attrice comica e nello stesso tempo femminista del cinema italiano, il sesto colonnello (nel senso di un attore che fa più incassi al botteghino), unica donna, accanto ad Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi. E proprio, e solamente, con Sordi, nonostante avesse lavorato con tutti e cinque i “colonnelli”, Monica costituì una delle coppie cinematografiche di maggior successo, anche se i due attori girarono insieme appena cinque film: “Il disco volante” (1964, regia di Tinto Brass), che segna il loro incontro ; “Amore mio aiutami”(1969, regia di Alberto Sordi); “Il frigorifero”(1970, episodio di “Le coppie”, regia di Vittorio De Sica); “Polvere di stelle”(1973, regia di Alberto Sordi); “Io so che tu sai che io so”(1982, regia di Alberto Sordi). Quello più amato e ricordato rimane “Polvere di stelle”, non fosse altro per la canzonetta “Ma’ndo Hawaii (se la banana non cel’hai)”, diventata un inno-tormentone, scritta dallo stesso Sordi assieme a Piero Piccioni.

Un aspetto di Monica che si scopre leggendo il libro è la sua minuziosità, la cura dei particolari, come scrive Giancarlo Governi nella prefazione “nello scegliere i copioni, nel contribuire a modificarli, nella quasi ossessiva ricerca dei dettagli, che la facciano apparire sullo schermo non meccanica interprete di una idea altrui, ma un vero personaggio, nel quale calarsi anima e corpo, fin nei minimi dettagli”. Attraverso la lettura, si apprende che il suo ultimo film, “Scandalo segreto”(1990), dopo i ruoli di attrice, doppiatrice, sceneggiatrice, soggettista, la vede nella veste di regista. “È un film- sono parole sue – fatto con grande passione. Credo, con umiltà e con grande amore”.

Lascio la conclusione a due riflessioni dell’attrice. La prima, sulla vecchiaia, tratta dalla trasmissione di Gianni Minà “Blitz. Speciale Monica Vitti” (1982). La seconda, sulla morte, tratta da “Monica Vitti. L’attrice che nacque due volte (RAI 3, 1998). “Se io continuerò ad aver bisogno della gente, di far ridere la gente, di lavorare, di interpretare delle cose, io credo che non invecchierò. Il momento che non avrò più voglia, allora sarà la fine. Sarò veramente vecchia”.

“Capisco che è naturale che si muore. Tutti però dovremmo inventare un modo diverso di andar via, più dolce, più sereno, meno doloroso per chi va e per chi resta. Certo che mi fa paura la morte perché l’abbiamo sempre vista come una cosa nera, con la falce, col mantello nero, scheletrica. Ma perché abbiamo voluto rappresentarla? Stateve zitti! Che bisogno c’era di fare quest’immagine così orribile? Allora fate finta di niente. Sapere che, siccome tocca a tutti, arriva e buonanotte. E, invece, pensare che sia l’inizio di una vita, per esempio”.