Un godibile mix di pezzi estratti da sei concerti tenuti da aprile a luglio 2014
Di Giovanni Greto
L’ultimo disco di piano solo se l’è prodotto lui stesso, ovvero Keith Jarrett. Ha scelto quali e quanti pezzi, e in quale maniera collocarli, estratti da sei concerti tenuti da aprile a luglio dell’anno scorso.Per la precisione e in ordine cronologico, tre a Tokyo (il 30 aprile, il 6 e il 9 maggio), uno a Toronto (il 25 giugno), uno a Parigi (il 4 luglio), uno a Roma (l’11 luglio). Quanto ai titoli, ha preferito usare la formula “Part”, “parte” – da I a IX -, come se il CD contenesse una lunghissima Suite (il tempo totale è di 72 minuti).
L’ascolto si rivela godibilissimo, anche perché questa volta Jarrett ha evitato quasi del tutto di lasciarsi andare a mugolii, optando per rare vocalità a sottolineare la frase melodica. Arrivato a 70 anni (li ha compiuti l’8 maggio), forse ha raggiunto un equilibrio e una pace interiore. È meno irruento. Predilige un andamento lento, con pause di riflessione. “Part I”, da Toronto, induce al rilassamento, a riflettere sulle cose belle della vita. “Part II”, la prima di quattro da Tokyo, si collega al romanticismo di fine ’800, senza incorrere in sdolcinatezze. Molto delicata, sembra dipanarsi in molteplici quadretti, che potrebbero far pensare alle “Gymnopédies” di Erik Satie (1866-1925).
“Part III”, da Parigi, si incammina fra sospensioni e tempi lenti. È il momento di fare un bilancio dell’esistenza, di verificare se le aspirazioni, i desideri giovanili, abbiano trovato o meno una realizzazione nell’età matura. Oppure affiorano le occasioni perdute, quelle che non si sono sapute cogliere e si cade in preda ad un magone senza fine. Allora la musica interviene a placare un animo turbato. In maniera meditativa, con dolcezza, facendo pensare alla bellezza della natura, e indirizzando la mente verso una calma intima. La prima delle tre parti romane, “Part IV”, ha una linea melodica assai cantabile. Se la si ascolta in un momento di tristezza, tale sensazione si acuisce, almeno in un primo momento. Poi, il potere sanatorio della buona musica riuscirà a portare il giusto conforto. È una lettura personale, soggettiva, suscettibile di essere smentita, secondo la condizione dell’individuo nell’istante dell’ascolto. Il brano più melodico è forse “Part V”, ancora da Tokyo. Verso la fine, l’esposizione tematica appare simile, in parte, a quella di una stupenda composizione di Antonio Carlos Jobim, “Aguas de Março”.
“Part VI”, di nuovo da Tokyo, ma da un concerto diverso, è il brano più lungo (9 minuti e 25 secondi), quello che esprime una sensazione più completa di felicità. “Part VII” e “Part VIII”, entrambe da Roma, inducono, per la loro bellezza, a domandarsi se non sarebbe il caso di editare l’intero concerto. Atmosfere minimaliste, un pedale iniziale insistito e crescente, l’approdo ad un linguaggio classico/contemporaneo del primo ’900, riletto come sempre con competenza e personalità. “Part IX”, l’ultima, dal primo concerto di Tokyo sembra un accorato, sentito arrivederci da parte dell’autore. Azzardando un paragone letterario, il disco è quasi un romanzo dal quale ci si aspetta uno sviluppo attraente dopo essere stati catturati da una prima narrazione. Pur essendo un disco dal vivo, Jarrett non ha inserito alcun applauso, nemmeno dopo il brano finale, forse per non spezzare un equilibrio sonoro e trasportare l’ascoltatore, ad occhi chiusi, nella platea del teatro.