Dopo nove giorni di trattative, dopo il giuramento al Quirinale, il vascello del governo Draghi prende il mare con una ciurma composta da 23 ministri, dei quali 8 sono tecnici e 15 politici (9 riciclati dal precedente BisConte), con una forte impronta nordista, visto che ben 18 ministri su 23 sono originari da territori posti ben al di sopra della Linea Gotica, in netto contrasto con il BisConte a trazione fortemente meridionalista.
Non solo l’asse di governo si sposta verso Nord per garantire una migliore rappresentanza alla parte più produttiva del Paese, destinata a trainarlo fuori dalle secche in cui è stato trascinato dalla precedente ciurma capitanata dall’Avvocato del popolo (rimandato a casa): nonostante le attese della vigilia, il neo premier scontenta il mondo femminista, visto che la tanto decantata parità di genere è rimasta sulla carta, con circa un terzo delle poltrone ministeriali (e solo due effettivamente “pesanti”) assegnato al fattore “F”. Una “dimenticanza” di cui si è fatto protagonista soprattutto il paladino (a parole) della parità di genere, quel Pd che ha piazzato al governo Draghi una delegazione tutta rigorosamente maschia, a testimonianza di come il fattore “P” sia ancora determinante (e molto) nei fatti della politica Dem.
Scendendo sui territori, la Lombardia è quella che ne esprime di più, con 9 ministri, seguita dal Veneto con 4, l’Emilia Romagna con 2 e Friuli Venezia Giulia, Liguria e Piemonte a quota uno. Fuori dai giochi il Trentino Alto Adige che potrebbe rientrare con la spartizione dei posti di viceministro e di sottosegretari. Tra i Lombardi spicca la figura del ministro tecnico alla Giustizia, l’ex presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, il riconfermato ministro alla Difesa Dem, Lorenzo Guerini, il ministro allo Sviluppo economico della Lega, Giancarlo Giorgetti, il tecnico neo responsabile del ministero all’Ambiente e transizione ecologica di osservanza grillina Roberto Cingolani, il ministro per gli affari regionali e le autonomie, la forzista Maria Stella Gelmini, il tecnico alla guida del ministero all’Innovazione tecnologica e transizione digitale, Vittorio Colao, il ministro al Turismo, il leghista Massimo Garavaglia, il tecnico alla guida del ministero dell’Università e ricerca, Maria Cristina Messa e Elena Bonetti di Italia Viva che rimane alla guida del ministero delle Pari opportunità e famiglia.
Espressione del Veneto sono il ministro tecnico che va a guidare l’Economia e finanze, il Bellunese Daniele Franco, ex direttore generale della Banca d’Italia, che sarà uno dei protagonisti del neo governo Draghi. Alla guida del ministero della Pubblica amministrazione torna il forzista Renato Brunetta, mentre ai Rapporti con il Parlamento è stato confermato il grillino Bellunese Roberto D’Incà. Ultimo componente della pattuglia ministeriale veneta, la leghista Erika Stefani cui è affidata la competenza della Disabilità.
Dall’Emilia Romagna arriva la riconferma alla guida del ministero della Cultura il Dem Dario Franceschini, mentre l’ex assessore all’università e lavoro, il Dem Patrizio Bianchi va alla guida del ministero dell’Istruzione.
In rappresentanza del Friuli Venezia Giulia il grillino Stefano Patuanelli dirottato alla guida del ministero dell’Agricoltura, mentre per la Liguria scende in campo il Dem Andrea Orlando mandato alla guida del ministero del Lavoro e politiche sociali. Piemontese il ministro alle Politiche giovani, la grillina Fabiana Dadone.
Si vedrà nelle prossime settimane la “stoffa” del governo Draghi, anche se il neo premier avrebbe fatto meglio a compiere un passettino in più specie in due caselle importanti come il ministero degli Esteri e della Sanità, dove sono stati confermati i due titolari del BisConte, rispettivamente il napoletano Luigi Di Maio e il potentino Roberto Speranza. Due ministri che nell’esperienza del governo appena consegnato alla storia patria non hanno affatto brillato per capacità e per competenza. Draghi avrebbe fatto meglio preporre agli Esteri, prima che la Libia dichiari guerra all’Italia, una persona decisamente più capace, pratica della storia, della geografia e pure delle lingue, ad iniziare da quella italiana. Meglio avrebbe fatto dirottare il più giovane ministro della compagine governativa sulla poltrona di ministro della Gioventù, dove il 34enne Di Maio avrebbe potuto discettare di come un giovane di sole belle speranze possa miracolosamente passare dall’essere venditore allo stadio a deputato, vicepresidente della Camera e poi ministro al Lavoro e, successivamente, agli Esteri, senza grandi titoli di studio ed esperienze pregresse. Quanto a Speranza, sarebbe stato meglio dare agli italiani l’effettiva speranza di uscire indenni dallo sfascio e dalla disorganizzazione con cui è stata gestita l’emergenza pandemica, magari dirottandolo al ministro per il Mezzogiorno, sempre nella speranza che il Sud possa rialzarsi dall’atavica arretratezza cui l’ha condannato una classe politica generalmente incapace e arruffona di cui Speranza ne è puntuale testimonianza.
Positivo, invece, il cambio di guida al ministero degli Affari regionali, passato da un sudista neocentralista come il Dem Francesco Boccia ad una convinta autonomista come l’azzurra Maria Stella Gelimini che, probabilmente, riuscirà a fare avere finalmente l’Autonomia a Lombardia e Veneto che l’hanno chiesta a furor di popolo già quattro anni fa, così come nessuno rimpiangerà la meteora del grillino Alfonso “FoFò” Bonafede alla guida della Giustizia o del Dem Roberto Gualtieri all’Economia. Ombre, invece, sulla figura del ministro all’Interno, Luciana Lamorgese, che ha di fatto abdicato alla difesa dei confini aprendoli nuovamente all’immigrazione indiscriminata. Con la Lega nuovamente nella compagine di governo, probabilmente qualcosa è destinato a cambiare: o la politica dell’immigrazione o la titolare del ministero.
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