Il “Dieselgate” scatenato da Volkswagen con la modifica delle centraline elettroniche dei motori Diesel per rientrare artatamente nei limiti delle soglie antinquinamento non è affatto terminato: la recente sentenza della Corte di giustizia europea di Lussemburgo riapre lo scandalo e, oltre a Volkswagen, potrebbe coinvolgere anche altre case costruttrici.
L’utilizzo della tecnologia che ha aiutato Volkswagen ad aggirare i test sull’inquinamento dei motori Diesel ha violato le regole dell’Unione, ha infatti stabilito la Corte, affermando che l’installazione di un cosiddetto “defeat device” (un sistema per bypassare i controlli) non può essere giustificata dal fatto che «contribuisce a prevenire l’invecchiamento o il blocco del motore».
Questa sentenza vincolante potrebbe aumentare il conto che Volkswagen ha già pagato per oltre 30 miliardi di euro in tutto il mondo, dando nuova linfa alle cause promosse dai consumatori dei vari paesi, oltre che dagli investitori che hanno perso fior di quattrini nel crollo del titolo dopo la scoperta dello scandalo “Dieselgate”.
A maggio scorso, la Corte federale tedesca di Karlsruhe aveva stabilito il diritto a un rimborso parziale del prezzo d’acquisto per i clienti che hanno acquistato una vettura Diesel con la centralina per le emissioni “truccata”. Anche un tribunale del Regno Unito aveva già stabilito ad aprile che Volkswagen ha utilizzato un “defeat device”, consentendo a 91.000 clienti di procedere con un’azione collettiva contro la casa tedesca. I giudici europei in un’altra causa trattata a luglio 2020 hanno stabilito che i proprietari di veicoli del gruppo Volkswagen (come Audi, Skoda e Seat) toccati dallo scandalo possono citare in giudizio la casa di Wolfsburg per la manipolazione delle emissioni Diesel in qualsiasi paese dell’Ue a 27.
Le sentenze della Corte di giustizia europea potrebbero ora coinvolgere anche altre Case costruttrici, alcune delle quali sono già state coinvolte nello scandalo con posizioni più limitate rispetto a quanto accaduto a Volkswagen che, per lavarsi l’immagine sporcata dal colossale scandalo, ha gettato alle ortiche il più efficiente propulsore termico per imbracciare la via dell’elettrico che non è affatto più pulita dello sporco che si vuole rimuovere, spostandolo solo da un punto all’altro della filiera, dalla strada alla produzione dell’energia elettrica e alla produzione delle batterie.
Non solo: nei giorni scorsi, in occasione dell’assemblea dei costruttori automobilistici giapponesi, il presidente dell’associazione e presidente della Toyota, casa che per prima ha creduto nei motori ibridi per le auto, Aiko Toyoda, ha detto senza mezzi termini che le «auto elettriche sono sopravvalutate e che il settore collasserà».
Toyoda ha criticato i sostenitori dell’elettrico perché, nel valutare la sostenibilità di questa tecnologia, non prendono in considerazione le emissioni di anidride carbonica prodotte dalla generazione di elettricità e, ancor di più, i costi sociali della transizione energetica. Inoltre, il presidente della Toyota ha fatto presente che il Giappone andrebbe incontro a un blackout nel caso in cui tutto il parco circolante fosse elettrificato, situazione che richiederebbe la realizzazione di un’infrastruttura dal costo multimiliardario: Toyoda ha quantificato una spesa tra i 14.000 e i 37.000 miliardi di yen (165-438 miliardi di euro). «Quando i politici dicono “liberiamoci di tutte le auto che usano la benzina”, capiscono cosa significa?», chiede il manager nipponico, ricordando come il Giappone dipenda fortemente dal carbone e dal gas naturale per la produzione di elettricità. Lo stesso vale anche per l’Europa e, soprattutto, il Parlamento europeo popolato da troppi politicanti demagoghi che poco o nulla sanno delle cose chiamati a discutere e, purtroppo, a decidere.
Tornando alle dichiarazioni di Toyoda, «più veicoli elettrici produciamo, più salgono le emissioni di anidride carbonica» evidenziando come l’obiettivo di mettere al bando i motori termici entro il 2035 «il Giappone corre troppo in fretta e rischia di creare conseguenze dannose per l’intero tessuto economico del Paese. L’attuale modello di business dell’industria automobilistica – ha avvertito – collasserà, determinando la perdita di milioni di posti di lavoro».
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