“Brazil in jazz”, successo di pubblico, con qualche contestazione

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Il Ravenna Festival 2012 si conferma manifestazione di interessi poliedrici
di Giovanni Greto

A causa di un insistente, forte acquazzone, il primo appuntamento con ‘Brasil in Jazz’, uno degli innumerevoli percorsi tematici di Ravenna Festival 2012, è stato spostato dalla Rocca Brancaleone al palazzo Mauro de Andrè, nella periferia della città, provocando un notevole ritardo sull’inizio del concerto. Il primo set spettava al trio ‘Madeira Brasil’, nato nel 1996 dall’incontro di tre virtuosi chitarristi carioca, intenzionati a reinterpretare il ‘Choro’, letteralmente “lamento”, un’antica musica tardizionale, popolare, che poi si sarebbe sviluppata nel samba e nella bossa nova.

Fattosi conoscere grazie al film ‘Brasileirinho’ di Mikka Kaurismaki, il trio ha presentato un programma che spaziava dagli ‘Chorinhos’ a brani di compositori classici, come la ‘Danza de la vida breve’ di Manuel de Falla, un omaggio al brasiliano Pixinguinha , ‘Coxichao’, ad Astor Piazzolla, ‘Fuga y Misterio’ e alla parte legata alla tradizione di Antonio Carlos Jobim, del quale i tre hanno eseguito ‘Passarinho’, un samba-choro e ‘Olha Maria’. Non poteva mancare un brano di Gismonti, ‘Loro’, dedicato dall’autore al celebre musicista e compositore Hermeto Paschoal, un personaggio inconsueto, tra i più originali della musica popolare brasiliana. Il trio è infine riuscito a far cantare il pubblico in ‘Trenzinho do Caipirà’, rilettura di un pezzo del compositore brasiliano più conosciuto al mondo, Heitor Villa-Lobos. Avvolti negli applausi, i tre hanno reso omaggio, nell’unico bis, ad una figura di primo piano della musica di Bahia, il grande cantautore Dorival Caymmi, scegliendo dal suo canzoniere ‘Vatapà’, un brano in cui l’autore spiega come dev’essere preparato un piatto tipico della cucina baiana. Il trio, affiatatissimo, sembra suonare ad occhi chiusi, con un interplay ricco di ritmo e di notevoli interpretazioni solistiche.

A questo punto è comparso sul palco Nanà Vasconcelos, concedendosi alla platea solo per 15 minuti, dapprima con il berimbau, nel fraseggio e vocalità che gli si riconosce, in un frammento che voleva ricreare i suoni della foresta amazzonica, sempre più a rischio di estinzione e con un brevissimo intervento vocale, fatto di ripetizioni e accavallamenti per mezzo di congegni elettronici, nell’utilizzo dei quali Nanà fu uno degli antesignani. La platea infreddolita, perplessa si guarda intorno, mugugnando. E’ la volta di Gismonti, che per circa 20 minuti siedeva dapprima al pianoforte, dando vita a medley dei suoi pezzi più famosi, per concludere, con un eloquio in lingua inglese, similmente a quanto avvenne in un concerto, lontano oltre 25 anni nella Venezia Giulia, per raccontare, ironicamente – per mostrarsi spiritoso?, per dimostrare com’è facile impressionare la platea? – le virtù di un flauto di plastica. Sinceramente non si è capito. Il pubblico protesta, il direttore artistico Franco Masotti si scusa e promette l’ingresso libero alla Rocca a quanti si presenteranno ai cancelli con il biglietto dell’infelice serata.

A 24 ore di distanza, forse per scusarsi, seriamente Gismonti annuncia la scaletta del programma. Salirà sul palco per primo lui stesso, alla chitarra e al pianoforte. Poi toccherà ad Hamilton. Infine l’atteso duo Nanà/Gismonti, che potrebbe ampliarsi a trio. L’acustica è molto buona, come quasi sempre del resto alla Rocca, anche se non c’è più la gradinata come nei bei tempi andati. Si prevede una lunga e, stavolta, felice maratona. Sdoppiandosi tra le chitarre e il pianoforte, Gismonti mostra tutta la bravura e la sensibilità melodica e ritmica di cui abbonda la sua musica. Da ‘Frevo’ a ‘Em familia’ a ‘Karate’, a citazioni di Piazzolla, scorrono i brani famosi. La platea segue attenta, divisa in due tra chi lo preferisce al piano, annoiandosi alla chitarra e viceversa. Ciò che è innegabile e lodevole è che anche nei momenti romantici non si cade mai nello stucchevole. Gismonti alterna passaggi impetuosi a situazioni delicate, sussurrate. Sia al piano che alla chitarra emerge l’originalità di un musicista colto, curioso e attento alle sonorità che lo circondano.

E’ una sorpresa, il lungo set di Hamilton, virtuoso del bandolim, il mandolino brasiliano, di cui ha modificato il numero delle corde, da 8 (vedi Ronaldo del trio Madeira) a 10. Basta pensare che ha iniziato a suonare a 5 anni e a 6, assieme al fratello Fernando Cesar allora 11enne, ha formato il duo ‘Dois de ouro’. Il solo pericolo, ascoltandolo, è quello di stancarsi, a causa di una sonorità persistente nei registri acuti. Ma la bravura non si discute e ascoltare la sua versione di ‘Canto de Ossanha’ è stato come abbeverarsi ad una fonte d’acqua fresca e pura. Dopo una breve pausa inizia il rush finale. Gismonti alla chitarra ha piacevolmente duettato con Nanà , una collaborazione la loro che risale agli anni ’70, testimoniata da interessanti incisioni marcate ECM . Nanà ha poi cantato a modo suo, suonato come sempre l’inseparabile Berimbau, riconoscibilissimo fin dal primo tocco sull’unica corda di un arco musicale di origine africana. Certo ripete sempre le solite cose, ma per fortuna lo fa bene. Gismonti è passato poi al pianoforte e allora Nanà è sembrato per così dire in soggezione. Più riflessivo nella scelta degli interventi, anche per evitare malintesi interpretativi. Ma il pezzo più bello, ancora una volta, è stata una lunga versione di ‘Frevo’, in alternanza con ‘Karate’, alla quale ha preso parte anche Hamilton. Precisione negli attacchi, negli stop e nella descrizione del tema all’unisono, da parte di Gismonti e Hamilton, i quali hanno dimostrato come in Brasile esistano musicisti originali, che raccontano qualcosa di diverso dal samba o dalla bossa nova, un genere di cui troppo spesso si abusa nel caratterizzare l’immagine dell’immenso paese sudamericano.