Le elezioni presidenziali statunitensi hanno certificato il successo travolgente di Donald Trump su una fiacca Kamala Harris, evidenziando ancora una volta il sostanziale fallimento dei sondaggisti incapaci di interpretare la pancia autentica del Paese.
Con in mano la presidenza, il controllo del Parlamento (lo spoglio del Congresso è ancora da compiere, ma la tendenza è ormai consolidata) e della Corte suprema di giustizia, Trump e il partito Repubblicano nei prossimi due anni ha la possibilità di imprimere al Paese quella sterzata che gli elettori richiedevano da tempo e che il governo del duo Biden-Harris ha palesemente sottovalutato.
Se Donald Trump terrà fede alle sue promesse, a partire dal rafforzamento dell’economia interna degli Stati Uniti frenando le importazioni esterne, specie quelle in dumping provenienti dalla Cina, oltre ad un progressivo disimpegno dagli scenari internazionali, a partire da quello europeo, sarà proprio l’Europa ad essere chiamata a pagare una parte sostanziosa dei conti, a partire dalla riduzione dell’export oltre Atlantico e a dovere sopportare maggiori spese per la propria difesa.
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Sarà una rivoluzione economica, soprattutto, dopo la fuga in avanti del “Green Deal” che deve essere rapidamente fermata, specie dinanzi agli Stati Uniti che rilanciano sulla produzione interna di energie fossili per combattere l’inflazione e per aumentare la competitività della manifattura stelle e strisce, pena l’essere trasformata solo in terreno di facile conquista da parte della produzione cinese che, con i dazi all’entrata nel mercato Usa, si riverserà su quello europeo, visto che il governo cinese ha più volte ribadito di non volere rallentare la produzione interna, nonostante il mercato cinese sia da mesi in rallentamento.
E con l’arrembaggio del mercato europeo dalla manifattura cinese, quelle crisi che si stanno vivendo in queste settimane nel settore dell’automotive sono solo l’avvisaglia di quello che l’Europa dei 27 dovrà vivere nei prossimi mesi, quando le assurde e autolesionistiche regole ambientali europee finiranno con il mettere fuori mercato gran parte della manifattura europea, costringendo alla chiusura le produzioni energivore e alla perdita di milioni di posti di lavoro.
Mentre la seconda Commissione europea a guida di una immeritatamente riconfermata Ursula von der Leyen deve ancora prendere il via, ecco che la crisi dilaga in Germania con il governo Sholz che perde uno dei due partner di maggioranza (i Liberali) e le sempre più probabili elezioni anticipate, mentre la Francia sta sull’orlo della recessione. L’Italia continua a galleggiare, anche se il rischio di imbarcare una crisi è sempre dietro l’angolo, anche perché nei suoi primi due anni di vita il governo Meloni non è riuscito ad imprimere quelle riforme a costo zero che avrebbero supportato l’economia nazionale, a partire dal taglio della burocrazia che si sta riverberando pesantemente anche sull’attuazione del Pnrr, pericolosamente in ritardo con l’apertura dei cantieri. Non solo: Meloni è stata troppo pavida nell’affrontare il taglio degli sprechi che albergano nel bilancio dello Stato per paura della perdita di consenso, nonostante il peso di ben 120 miliardi di euro che, se progressivamente energicamente tagliati, avrebbero consentito di tagliare le tasse asfissianti per chi le paga – una ridotta platea di contribuenti che sorreggono tutto il Paese -, rilanciare gli investimenti e tagliare il mostruoso debito pubblico da quasi 3.000 miliardi che costa solo di interessi quasi 100 miliardi di euro all’anno.
Si vedrà se Donald Trump saprà dare la frustata promessa all’interno degli Stati Uniti e che riflessi questa avrà sulle province dell’impero atlantico.
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