Pnrr avanti piano, quasi fermo: a fine settembre speso solo il 27,5% dei 194 miliardi

In poco più di 20 mesi si accumulano 130 miliardi di spesa, un’operazione al limite dell’impossibile con l’inefficienza della burocrazia italiana.

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Pnrr avanti piano

Pnrr avanti piano, quasi fermo, visto che dei 194 miliardi di fondi erogati dall’Unione europea, circa un terzo a fondo perduto e il resto debito da restituire in comode rate a tasso di favore, al 30 settembre 2024, secondo le risultanze della piattaforma Regis, ne sono stati spesi solo 53,5 miliardi, pari al 27,5% del totale. Davvero un po’ troppo poco che ancora una volta testimonia l’eccessivo peso della burocrazia italica e la sua congenita incapacità di spendere presto e bene le risorse disponibili.

E mentre il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, unico tra i suoi 27 colleghi, chiede alla Commissione europea una proroga di almeno un anno per terminare le spese, anche per evitare specie affrettate pur di spendere generando nuovi, inutili sprechi con fondi da restituire, da più parti, a partire dagli imprenditori, si chiede un intervento d’urgenza da parte del governo Meloni per semplificare le norme e le pratiche per accedere ai fondi per l’investimento in nuove tecnologie di “Industria 5.0”, dove i 6,3 miliardi di fondi disponibili ne sono stati finora chiesti dal mondo produttivo per circa 180 milioni di euro. Decisamente troppo poco, soprattutto a causa di quella che molti hanno definito una “burocrazia kamasutra”, con molte imprese interessate ad accedervi impossibilitate a capire come farlo, nonostante il ricorso a consulenti specializzati.

L’incapacità di spendere dello Stato e delle sue amministrazioni territoriali è cristallina, visto che dei 44 miliardi di fondi disponibili nel 2024 ne saranno spesi effettivamente circa 20, rimandando il resto al 2025, andando così ad aumentare il gruzzolo da spendere entro i prossimi 20 mesi, visto che il termine ultimo vigente – salvo al momento improbabili proroghe – è fissato a luglio 2026, con 130 miliardi da spendere pena la restituzione di quanto non utilizzato e pure le intere somme di progetti finanziati ma non completati.

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Se poi si pensa che nel 2025, tra fondi di competenza e fondi recuperati, si dovranno spendere 86 miliardi di euro, è facile capire l’impresa praticamente impossibile che attende il governo Meloni e il futuro successore del ministro Fitto in procinto di trasferirsi alla Commissione europea come commissario italiano, sempre che non finisca trombato dal filibustering che i Socialisti hanno già annunciato a suo carico.

E se il Pnrr è praticamente fermo, di fatto è ferma nella spesa anche quella fetta di fondi del piano complementare finanziato direttamente dal bilancio nazionale, pari ad altri 30 miliardi.

In un contesto dove l’economia europea sta rallentando con la Germania in recessione per il secondo anno consecutivo e con la Francia sull’orlo di esserlo, l’Italia ha ancora un segno positivo, ma lontano da quell’1% previsto solo in estate dal ministro Giorgetti, falciato dalla revisione dei conti nazionali condotta dall’Istat che ha portato la crescita del Pil 2024 allo 0,8%, salvo ora vedere le previsioni del Fondo monetario internazionale e del Centro studi Confindustria limarlo ulteriormente allo 0,7%, con un’attesa di aggirarsi attorno all’1% per il 2025.

Probabilmente se i fondi del Pnrr e del piano complementare fossero effettivamente messi a terra finanziando investimenti e opere pubbliche, i risultati economici potrebbero essere decisamente superiori, ma così purtroppo non è.

Il governo Meloni deve intervenire per accelerare la capacità di spesa del pachiderma pubblico, in tutte le sue declinazioni, perché è un peccato mortale sprecare in questo modo ingenti risorse a debito per non cavalcare la possibilità di crescere e di abbandonare velocità di crescita da prefisso telefonico.

Peccato che nei primi due anni del suo governo, Meloni abbia fatto poco per semplificare, accelerare, tagliare le grinfie alla burocrazia e ai suoi gelosi mandarini. Si continua a galleggiare sull’esistente, rinunciando alla riforma a costo zero che potrebbe avere effetti ben più dirompenti di quella istituzionale, che di suo sta avviandosi a passi veloci verso le sabbie mobili della politica parlamentare.

La Nazione guidata dal primo premier donna nella storia della Repubblica non lo merita.

 

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