Governo Meloni, bilancio dei primi due anni di mandato

Rilanciato il ruolo internazionale dell’Italia. Avviato il processo riformatore che viaggia con il freno tirato. Riforma fiscale, avanti piano. Muro di gomma della burocrazia.

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Governo Meloni

A due anni dall’inizio del governo Meloni (in carica dal 22 ottobre 2022) il bilancio è positivo, specie sul fronte internazionale, ma dopo almeno vent’anni di immobilismo all’insegna del piccolo cabotaggio di governi balneari, rimane ancora molto da fare per modernizzare il Paese sotto l’assetto istituzionale ed operativo, con le riforme che viaggiano con il freno tirato.

A livello internazionale, Giorgia Meloni, primo premier donna della storia della Repubblica italiana, è riuscita da imprimere una direzione univoca riaffermando le alleanze atlantiche in ambito Nato e rilanciando la presenza dell’Italia in quello che è il proprio cortile di casa, l’ambito mediterraneo, con particolare riferimento all’Africa e al Medio Oriente, lanciano il “Piano Mattei” per intavolare un rapporto di partenariato con i vari paesi, superando quelle logiche di sfruttamento e depredazione che negli anni hanno caratterizzato la presenza della Francia, prima, e della Cina, oggi.

Anche gli accordi internazionali sottoscritti con i paesi mediterranei per aumentare il controllo sull’immigrazione illegale stanno iniziando a dare frutti, anche se ci sono ampie parti della politica e degli organi istituzionali che operano contro, limitando molto i risultati ottenibili.

In ambito europeo, il governo Meloni pare superare il ruolo di ruota di scorta che hanno caratterizzato le ultime commissioni, complice anche l’indicazione di commissari italiani non all’altezza, quasi sempre espressione di una sinistra prona all’asse tra Parigi e Berlino. Si vedrà se il designato commissario Raffaele Fitto riuscirà a superare l’annunciato filibustering dal Pse, dove gioca molto il rapporto personale tra Meloni e Ursula von der Leyen.

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Laddove i risultati portati a casa dal governo Meloni lasciano un po’ a desiderare è sul fronte istituzionale e del fisco, dove il processo riformatore è stato avviato, salvo procedere con il freno tirato. Con tutta probabilità la devoluzione di competenze dallo Stato alle Regioni previsto dalla riforma costituzionale del 2001 si rivelerà un’anatra zoppa, con solo una piccola parte delle competenze effettivamente delegabili, perché la questione dei Lep, i Livelli essenziali di prestazione uguali in tutt’Italia dalla Vetta d’Italia a Capo Passero è di fatto irrealizzabile per via degli enormi costi connessi.

Si sarebbe potuto fare rivivere e rilanciare gli accordi bilaterali sottoscritti tra il governo Gentiloni e le regioni, magari ampliandone la portata, senza perdersi nell’approvazione di una legge quadro di fatto inutile, ma buona solo per ammansire anche all’interno della coalizione di centro destra quelle forze politiche e quei territori contrari all’assegnazione della maggiore autonomia. Si vedrà cosa il ministro Roberto Calderoli riuscirà a fare, ma è lecito nutrire più di un dubbio.

Una riforma a costo zero che avrebbe dovuto essere applicata per decreto il secondo giorno di mandato avrebbe dovuto riguardare la burocrazia con un taglio netto delle miriadi di procedure e adempimenti che rallentano il processo degli investimenti e delle autorizzazioni e che contribuiscono a fare dell’Italia – assieme ad una giustizia al rallentatore – uno dei paesi meno capace di attrarre investimenti esteri. Ma le resistenze dei mandarini della media ed alta burocrazia ha finora avuto la meglio sulla volontà della politica che non si è dimostrata così decisa ad imporre la propria volontà.

C’è poi la riforma fiscale che è stata avviata e di cui s’inizia a vedere qualche effetto positivo, finora concentrata tutta sui percettori di bassi redditi, già di per sé ampiamente assistiti. Si sarebbe potuto e dovuto fare di più per la cosiddettaclasse media”, colpevole di guadagnare più di 35.000 euro lordi all’anno, per non dire di quei “disgraziati” che ne guadagnano oltre i 50.000 euro lordi all’anno, ai quali viene negato praticamente qualsiasi beneficio pubblico. Certo, c’è la questione della copertura dei costi della riforma, ma con un po’ di coraggio si sarebbe potuto trovare le risorse necessarie tagliando gli sprechi che albergano nella spesa pubblica che ormai ammontano ad oltre 100 miliardi all’anno dei 1.000 miliardi complessivi. Con un po’ di determinazione e coraggio si sarebbe potuto tagliare una fetta di questi sprechi per dare sollievo alla parte portante della società italiana in termini di capacità di spesa e d’investimento.

C’è poi la questione del riassetto dei poteri dello Stato, riportando all’interno dei propri confini d’intervento i vari organismi dopo lustri di continue invasioni di campo. Operazione sicuramente delicata, ma necessaria per evitare che ogni propostapesante” del governo Meloni finisca sotto le forche caudine di qualche magistratocombattente”.

Infine, dopo due anni di esperienza, c’è da mettere a punto la macchina di governo, intervenendo su quei ministri finiti sotto inchiesta – e probabilmente rinviati a giudizio – che sono tarpati nella loro azione e su coloro che si sono dimostrati sotto le legittime attese, più inclini alle cianche che ai fatti. Meloni dovrebbe superare il timore di fare un rimpasto del suo governo, specie se vuole mettere a terra le riforme e migliorare l’azione quotidiana dell’amministrazione, oltre che per evitare di arrivare logorata all’appuntamento elettorale tra tre anni.

 

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