Contrariamente alle attese e alle dichiarazioni di esponenti del governo Meloni, per il turismo italiano il 2024 chiuderà in negativo del 2,5%, trainato al ribasso specie dal calo dei turisti italiani, scoraggiati dall’andare in vacanza per i forti aumenti applicati dai vari operatori della filiera turistica.
Secondo i calcoli di Demoskopika, uno dei maggiori centri studi del settore turistico, per il 2024 si prevedono 130,3 milioni di arrivi e 445,3 milioni di presenze, con un decremento rispettivamente del 2,5% e dello 0,4% rispetto al 2023, segnato da 133,6 milioni di arrivi e 447,2 milioni di pernottamenti. A pesare maggiormente nel calo del turismo italiano la quota degli italiani rispetto al mercato estero: a optare per una destinazione entro i confini nazionali sarebbero quasi 63 milioni di italiani (-4,5% rispetto al 2023) con poco meno di 208 milioni di pernottamenti (-2,5% rispetto al 2023). Sul versante degli arrivi esteri, che rappresenta una quota del 51,8% del totale, si registrerebbe, con circa 67,5 milioni di arrivi, un calo più contenuto (-0,6%), ma con una crescita, al contrario, delle presenze stimate in 237,6 milioni per il 2024, pari all’1,4%.
Quanto al volume del fatturato del turismo italiano, i flussi potrebbero generare una spesa turistica pari a 127 miliardi di euro con una variazione in crescita del 3,8% rispetto al 2023, una crescita su cui pesa la dinamica al rialzo dell’inflazione turistica acquisita, stimata al 4,9% da Demoskopika nel mese di agosto, potrebbe pesare per ben 5,9 miliardi in più sui consumi dei vacanzieri.
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«È necessario adottare una programmazione più consapevole e strategica – dichiara Raffaele Rio, presidente di Demoskopika – per adeguare l’offerta turistica del Belpaese alle trasformazioni in atto nei modelli di consumo turistico e, contestualmente, per contrastare in modo efficace la crescita sostenuta dei prezzi. Il turismo sta vivendo una fase di rapidi cambiamenti, influenzata da nuovi trend, come il turismo sostenibile, le esperienze personalizzate e l’aumento della domanda per mete alternative a quelle più famose, le cosiddette “dupe destinations”, sicuramente più economiche e meno inflazionate rispetto alle mete più blasonate».
Conferma l’allarme Assoutenti secondo cui i turisti puniscono le speculazioni degli operatori turistici e tagliano drasticamente villeggiature e soggiorni fuori casa. Il presidente Gabriele Melluso spiega che «le strutture ricettive, stabilimenti balneari, ristoratori e operatori del settore hanno applicato sensibili rialzi dei prezzi speculando sulla ripresa del turismo straniero in Italia, un’arma a doppio taglio che ha spinto gli italiani a ridurre drasticamente le partenze e i soggiorni sul territorio nel corso dell’anno. Per dare una idea dei rincari che si sono abbattuti sul comparto, basti pensare che solo ad agosto i prezzi dei pacchetti vacanza sono saliti del +37,4% su base annua, le tariffe dei villaggi vacanza e dei campeggi del 12,9%, quelle degli alberghi del 4% con punte del 7,2% le strutture ricettive di altra tipologia».
Serve da parte del ministero al Turismo un maggiore sforzo nel sorvegliare l’andamento della formazione dei prezzi per evitare, come denuncia Assoutenti, l’insorgenza di fenomeni speculativi, parimenti ad una maggiore regia tra il livello nazionale e quello delle 20 regioni che operano sul mercato internazionale in regime di concorrenza, rubandosi l’una l’altra le presenze turistiche. Sarebbe opportuno operare maggiormente in un’ottica di destinazione Italia, specie sui mercati esteri, che sarebbe maggiormente vincente rispetto ad una destinazione “Veneto”, Trentino”, “Lombardia” o anche “Emilia Romagna” presa singolarmente.
Ma anche le singole regioni hanno le loro responsabilità per non avere una catena turistica efficiente, come nel caso del Trentino, dove sul comparto opera una società di sistema provinciale, Trentino Marketing, e ben 12 diverse Aziende di promozione turistica di ambito per lo più vallivo, tra loro in concorrenza. Ovvio che il sistema faccia acqua, tanto che le 12 Apt si sono consorziate per mettere in comune i servizi generali, quando questi potrebbero ben essere operati direttamente dalla società di sistema provinciale, a vantaggio della semplificazione della catena decisionale e della riduzione dei costi.
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