La manovra 2024 mantiene una “postura di prudenza e sostenibilità”, come sostiene il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, oppure è “iniqua” e poggia su basi fragili e poco credibili, come si afferma dalle opposizioni?
Si tratta a ben vedere di una manovra 2024 che nel totale mobilita risorse per complessivi 28 miliardi, se vi si aggiungono i 4,3 miliardi che servono a finanziare l’accorpamento al 23% dei primi due scaglioni Irpef fino a 28.000 euro, e che poggia i suoi assi portanti sulla conferma del taglio degli oneri contributivi fino a 35.000 euro per un controvalore di altri 10 miliardi di euro. Due misure che trovano copertura per il solo 2024.
Quello autorizzato dal Parlamento è un extradeficit corposo: 3,2 miliardi per il 2023, 15,7 per il 2024, 4,6 miliardi per il 2025. Ed è l’ultimo scostamento di bilancio consentito. Anche al di là del complesso meccanismo messo a punto in sede Ecofin, è l’ingombrante peso del debito pubblico che resterà inchiodato nei dintorni del 140% del Pil a precludere il ricorso a nuovo extradeficit. Il debito andrà ridotto di almeno un punto l’anno. Il livello del disavanzo strutturale dovrà scendere all’1,5%, e poi si terrà conto nel periodo transitorio 2025-2027 del peso degli interessi.
Giorgetti preferisce parlare di “disciplina” piuttosto che di “austerità”, sorvolando sulla fragilità intrinseca della manovra 2024 insita in una previsione di crescita che si avvia ad essere decisamente irrealistica: due guerre, l’inflazione, la contrazione dell’economia tedesca spingono verso la revisione al ribasso delle stime contenute nell’ultima Nadef, con un Pil indicato a quota +1,2%, quando ormai tutte le previsioni delle istituzioni interne e internazionali convergono su una forchetta che varia dal +0,5-0,6% a un massimo dello 0,7-0,8%. Variazioni di cui dovrà dar conto il prossimo Documento di economia e finanza di aprile.
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Poi, da non sottovalutare le possibili conseguenze di un prolungamento delle tensioni nel Mar Rosso, dove transitano le merci e le materie prime con destinazione Europa e una buona fetta dell’export del vecchio continente. Con il rischio, sempre meno ritenuto un’ipotesi irrealistica, che il conflitto mediorientale si allarghi all’Iran, già ora coinvolto collateralmente a sostegno delle posizioni palestinesi e dei libanesi di Hezbollah che stanno facendo alzare la temperatura sul confine nord di Israele.
Da parte sua, il ministro alle Finanze Giorgetti afferma che non vi sarà bisogno di alcuna manovra correttiva perché l’insieme delle previsioni contenute nella manovra è in linea con le nuove regole del Patto di stabilità. Probabilmente, da buon politico di lungo corso in vista con una primavera 2024 a forte impatto elettorale (tra le Europee e le sei regionali, oltre a qualche comune), deve professare ottimismo a camionate, anche se non c’è da rimanere troppo fiduciosi. E nei suoi panni sarebbe meglio iniziare fin d’ora a preparare una manovra correttiva che punti sui tagli alla spesa pubblica e alla revisione dei numerosi sprechi e agevolazioni settoriali, ovviamente da presentare agli elettori a urne chiuse.
La prossima manovra, quella 2025, partirà già gravata dalla necessità di finanziare almeno per un altro anno i circa 14,5 miliardi che servono a sostenere le due misure portanti della manovra 2024 (taglio al cuneo fiscale e avvio della riforma fiscale), cui occorrerà aggiungere l’onere dell’aggiustamento di bilancio. Secondo stime autorevoli, sul piatto della bilancia c’è una somma variabile tra i 6 e i 12 miliardi, a seconda dell’andamento dell’economia e del disavanzo.
Con questo bagaglio di partenza, e soprattutto alla luce dell’andamento del debito pubblico, della conseguente spesa per interessi e del peso crescente dei bonus edilizi e della concreta frenata del settore edile dopo lo stop al Superbonus 110%, paiono fin d’ora ridotti al lumicino spazi ulteriori da ricavare all’interno del bilancio per sostenere la crescita.
Al momento, per provare ad alzare l’obiettivo della crescita non resta che affidarsi alla carta del Pnrr, ammesso che si riesca a realizzare tutti gli impegni definiti in termini di riforme e investimenti, cosa di cui è lecito nutrire più di un dubbio.
Altro aspetto da non trascurare, sottolineato anche da “il Sole 24Ore”, la difficoltà del governo Meloni (e di quelli che l’hanno preceduta) di concretizzare realmente le varie leggi finanziarie, specie nella parte relativa ai decreti attuativi: partendo dalla manovra 2023, la prima del governo Meloni, a distanza di un anno ancora il 29,5% delle misure attuative attendono di concretizzarsi, quella del 2022 (governo Draghi) è all’8,8%. Solo quella del 2021 (Conte Bis), con il 3%, può essere considerata attuata quasi completamente, ad oltre tre anni dalla sua approvazione
Non solo leggi finanziarie: negli ultimi anni il Parlamento ha preso il vizio di approvare leggi che per la loro attuazione puntuale rimandano ad altri atti: le sole leggi approvate nella legislatura corrente del governo Meloni ne prevedono ben 234, che vanno ad assommarsi a quelli lasciati in eredità dai precedenti esecutivi: i 143 del governo Draghi, i 47 del Conte II e i 15 del Conte I. Sempre che la nuova maggioranza di centro destra intenda farsi carico dei provvedimenti varati dai governi della scorsa legislatura.
Ultimo aspetto da non sottovalutare è relativo alla compressione dei tempi dell’esame parlamentare della manovra, ormai si tratta di una prassi che si reitera di anno in anno. Eppure la Corte Costituzionale, nel dichiarare inammissibili i ricorsi presentati da 37 senatori dell’opposizione di allora al governo Conte 1 (M5s-Lega Salvini), ha ribadito con ordinanza dell’8 febbraio 2019 che comunque deve essere garantita ai parlamentari la facoltà di «collaborare cognita causa alla formazione del testo», contribuendo «alla formazione della volontà legislativa». Alla Camera questa facoltà è stata di fatto inibita poiché il testo approvato dal Senato è giunto blindato, senza alcuna possibilità di emendarlo.
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