Negli Stati Uniti, Google va a processo per posizione dominante nel mercato dei motori di ricerca, violando la concorrenza, complici gli accordi tra il colosso del Web e le case costruttrici di telefoni, tablet e pc che preinstallano sui loro dispositivi come motore di ricerca predefinito proprio Google, che per il servizio ringrazia tangibilmente pagando 45 miliardi di dollari all’anno, una piccola parte dei suoi 283 miliardi di ricavi del 2022.
L’azione dell’antitrust americano è scattata a seguito della constatazione che oltre il 90% del mercato delle ricerche sul web all’interno dei confini Usa è appannaggio di Google lasciando le briciole ai vari Bing (in forte recupero dopo la decisione di Microsoft di integrarlo con l’intelligenza artificiale di ChatGpt), Yahoo, Safari e DuckDuckGo.
Sarà un processo lungo e costoso, forte anche dei 5 milioni di pagine di documenti e 120 testimoni messi assieme dall’accusa. Una situazione che non scoraggia l’Antitrust americano, che nel passato ha colpito duramente le situazioni di monopolio: da quella del settore telefonico di At&T iniziata nel 1974 e conclusasi nel 1982 con lo smembramento della società in 7 diverse realtà più piccole – le cosiddette Baby Bell – o della stessa Microsoft, accusata di preinstallare all’interno del proprio sistema operativo Windows il browser Explorer.
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Se in America non si va tanto per il sottile, in Italia le situazioni di monopolio fanno il solletico ai titolari e agli organismi deputati di tutelare la concorrenza. Tipici sono i casi delle concessioni dei balneari – dove l’Italia rischia fortemente la procedura d’infrazione Ue con multe milionarie – o delle licenze contingentate dei taxi, nonostante il mercato richiedesse, specie nelle città turistiche o d’affari, almeno il raddoppio delle auto bianche in servizio.
Ma anche dove la concorrenza è nata spontaneamente e cresciuta in modo selvaggio, come nel campo delle locazioni brevi degli appartamenti, invece di regolamentare adeguatamente la situazione, il governo agisce per stroncarla, imponendo un limite di sole 2 abitazioni gestite nelle locazioni brevi, prevedendo per tutte le altre il possesso di un’organizzazione similare ad un albergo, con i relativi obblighi di sicurezza. Di fatto, si andrebbe ad uccidere un mercato a favore del settore alberghiero – che è soddisfatto della norma in corso di preparazione da parte del governo Meloni – mentre scontenta tutti i proprietari edilizi, pesantemente vincolati nella libera disponibilità dei loro immobili.
Pare proprio che l’Italia abbia una forte repulsione per tutto quello che è mercato, concorrenza e successo dei migliori, a danno delle inefficienze e delle sacche della rendita di posizione che, come nel caso delle concessioni balneari, finiscono pure col danneggiare lo Stato con introiti annui decisamente risibili rispetto ai ricavi degli operatori.
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